di Geraldina Colotti

«Lavoriamo per rifondare il Partito comunista - dice al manifesto Abdulaziz Alkhayer - ma per come stanno le cose adesso, il primo obbiettivo è la democrazia, che bisognerà difendere sia dalla dittatura che dai fondamentalisti islamici». Alkhayer, del Coordinamento corpo nazionale (Nbc), risiede a Damasco ed è uno dei promotori dell'Appello di Roma per la Siria, che ha firmato a nome della sua organizzazione nel cartello che riunisce dal West Kurdistan Assembly, al Blocco nazionale, dal Forum democratico al Gruppo islamico democratico.
Qual è stato il suo percorso politico?

Ho cominciato a fare opposizione subito dopo l'arrivo al potere di Afiz al-Assad, il quale aveva soffocato l'ala marxista del partito Baath.

Dal '71 al '78 sono stato sindacalista, come parte di quei comunisti della «seconda onda» che non condividevano le posizioni staliniste, a differenza di quelli della «prima onda». Nell'81 abbiamo fondato il Partito comunista dei lavoratori, di cui sono stato presidente per 11 anni, scrivendo articoli e organizzando l'attività clandestina. Nel '92 sono stato arrestato e condannato a 22 anni. Sono stato torturato per un mese e mi è tornato utile l'aver appreso le tecniche di resistenza, mi occupavo di questo nel partito. Eravamo in 7 e abbiamo tenuto, questo ci ha dato una grande forza in carcere. Sono medico, in galera ho cercato di rendermi utile. Intanto, dentro e fuori, dovevamo affrontare le conseguenze del crollo dell'Unione sovietica, il dilagare dell'influenza Usa, la situazione difficile dell'opposizione. Sono uscito dopo 14 anni, per un'amnistia. Ora lavoriamo per rifondare il partito in un contesto in cui le discussioni sono state progressivamente annichilite. I comunisti della «prima onda» che hanno avuto posti di potere con Assad, continuano a sostenere il regime, ma la loro base sta con noi. Le mie idee non sono cambiate, ora però il primo obbiettivo è la democrazia.
In tanti nel mondo, non solo i comunisti della «prima onda», temono lo spettro della Libia e dell'intervento armato. Che partita può giocare chi la pensa come lei nel puzzle siriano?
Noi siamo fermamente contrari all'intervento armato e alle ingerenze che, data la posizione della Siria nella regione e nel panorama internazionale, sono diverse. Il mio paese ha poco petrolio, ma è in posizione strategica rispetto a quelli che ne hanno. Usa e Europa cercano di sfruttare a loro vantaggio le primavere arabe per contrastare gli interessi della Cina, della Russia, dell'Iran. Poi ci sono gli attori regionali in crescita, come l'Iran, alleato del regime, e la Turchia che contrasta quell'alleanza. Ci sono i paesi del Golfo. L'Iran è un concorrente scomodo, da indebolire. Per alcuni esiste il Golfo Persico, per altri quello è il Golfo Arabo. La Russia ha da sempre i suoi interessi, è stata alleata di tutti i governi, dal '55: armi, addestramento militare. Poi c'è la Cina, paese che nel 2025 sarà probabilmente la prima potenza economica mondiale e per cui il petrolio è fondamentale. Russia e Cina vogliono dimostrare che niente può essere fatto senza di loro. Il regime lo sa per questo cerca il loro sostegno e quello iraniano. Una parte dell'opposizione fa finta di non capire che gli interessi internazionali non sempre coincidono con quelli del popolo e che questa non è solo una guerra civile, ma uno scontro geopolitico di portata internazionale. Altri paesi progressisti, come quelli dell'America latina mettono comprensibilmente in avanti l'antimperialismo, per questo sostengono il regime. Sta a noi cambiare le cose. La Siria è un paese piccolo, ma insieme all'Egitto è sempre stata un baluardo culturale nella regione. Se anche non potremo avere il ruolo che ha il Venezuela nell'area progressista latinoamericana, ci proponiamo comunque di fare la nostra parte.
Lei ha partecipato alla delegazione di oppositori ricevuta dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Che cosa vi siete detti?
Ci siamo andati diverse volte. La Russia non ha una particolare affezione per al-Assad, cerca solo garanzie per il dopo, vuole che i suoi interessi - che con il conflitto non ci stanno guadagnando - siano tutelati. Una garanzia che evidentemente non può ancora avere, anche se le cose stanno cambiando.
Lo spirito dell'Appello di Roma riprende quello del piano di pace di Kofi Annan, che però è fallito. Perché il vostro dovrebbe funzionare?
Noi vogliamo lavorare sulle condizioni che hanno impedito la realizzazione del piano di pace, che nel complesso era buono e che è stato accettato sulla carta da tutti. Prima di tutto, è mancato un vero sostegno unitario a livello internazionale e regionale. Ora i russi si stanno rendendo conto che il regime è finito e anche l'Iran si sta convincendo che la situazione non favorisce i suoi interessi. L'atteggiamento della Turchia e dell'Occidente non è cambiato, ma in molti cominciano a rendersi conto che tutta questa violenza finirà per rafforzare uno zoccolo duro dell'islamismo radicale che poi sarà difficile scalzare e controllare. Noi vogliamo parlare con tutti, tutti dovranno partecipare a una fase di riconciliazione nazionale, anche esponenti del regime che non abbiano sangue sulle mani. Ma devono tacere le armi.

il manifesto (27 luglio 2012)

 

 

 

 

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