di Antonio Gnoli

Luciana Castellina è una donna che ha fatto palpitare molti cuori. Bellissima, seducente, colta e, naturalmente, comunista. L’anno scorso per Nottetempo uscì La scoperta del mondo, un piccolo libro autobiografico, dove raccontava parte della sua formazione comunista. Ma tutto sul filo della memoria, dell’ironia, di quella grazia che quando si declina al femminile, è un valore aggiunto. Ci incontriamo nella sua bella e ospitale casa romana.
Come eravate voi del Pci nei rapporti d’amore?
«La responsabilità e il decoro, che il partito, esigeva dovevano convivere con le passioni sentimentali che a volte pote- vano essere travolgenti. Non era facile tenere sotto controllo una situazione antropologicamente chiara ma politicamente condizionante. In fondo parlare d’amore è complicato».
Perché?
«I comunisti preferivano parlare della famiglia. L’amore è una nozione moderna che implica il concetto di individuo. L’amore non esiste nel mondo rurale.

E l’antichità conosce l’eros ma non l’amore come lo intendiamo oggi. L’amore è anche rischio, passione, principio di de- stabilizzazione. Considerato una prerogativa “borghese” e per questo nel Pci poteva essere visto con sospetto. Aggiunga che la gran parte dei due milioni e passa di iscritti al partito erano contadini e cattolici e avrà chiaro il quadro della situazione».
E tuttavia proprio i vertici del partito non sempre davano il buon esempio.
«C’era un misto di puritanesimo e di pratica non consonante, ma questo accade ovunque il potere venga esercitato. Inoltre, caduto il fascismo, molti dirigenti comunisti tornarono dalla galera, dal confino, dall’esilio. Erano più vecchi di qualche anno, ma si sentivano eroi in grado di sedurre giovani fanciulle. I più anziani erano i Longo, i Roasio, i Togliatti. Tutti sposati ma con delle mogli che appartenevano a un’altra stagione della vita».
Scoppiano i primi drammi familiari.
«Il caso più famoso riguarda Teresa Noce, la moglie di Longo. Con lui fa una vita di privazioni inaudite: l’esilio a Parigi, poi a Mosca, la guerra di Spagna. Infine in Francia finisce catturata dai tedeschi che la spediscono in Germania. E quando viene liberata dopo il 1945 sco- pre due cose: che il mondo è cambiato e che Longo si è messo con un’altra donna, una dirigente dell’Udi. Non reagì benissimo».
Anche Togliatti lasciò la moglie, Rita Montagnana, per Nilde Jotti. Cosa lo spinse a questo gesto?
«Togliatti si invaghì della normalità di Nilde, bella signora emiliana che fece capire al partito che si poteva indossare un bel vestito, andare dal parrucchiere, portare dei gioielli conservando una certa diversità comunista».
Come reagì il partito?
«Male. La povera Nilde le scontò tutte. Per tanto tempo la federazione torinese le impedì di mettere piede in città, dove erano nati sia Togliatti che la Montagnana. Lei era quella che le aveva rubato l’uomo, distolto il grande leader dai suoi compiti naturali».
Questa coppia lei l’ha conosciuta da vicino?
«Mi è capitato di andare a cena a casa loro. Ricordo che a Togliatti piaceva che la tavola fosse ben apparecchiata: aggiustava i fiori, allineava le posate ed era soddisfatto del ruolo di Nilde, della sua normalità».
Quando dice “normalità” intende borghese?
«Solo in parte. Intendo che quella era per Togliatti una virtù politica. Il suo modo di prendere atto che da lì in poi avrebbe parlato a una società normale».
Non ritiene che la rigi- da morale del partito dipendesse anche dal fatto che il Pci era un organismo molto simile alla Chiesa?
«C’erano dei codici e delle liturgie da rispettare».
Che ogni tanto venivano trasgrediti soprattutto da intellettuali e artisti.
«Il loro era un mondo separato. Anche se interessante. Quando conobbi il mio ex marito, Alfredo Reichlin, che allora era all’Unità, frequentavamo sì gli intellettuali, ma erano davvero un corpo secondario, rispetto al partito».
Il che non impedì, quando se ne scoprirono le inclinazioni sessuali, l’espulsione di Pasolini per indegnità morale.
«Era il 1950. La questione gay non era stata neppure lontanamente affrontata. C’era stata una denuncia per atti osceni. E il partito reagì male, molto più nel perbenismo dei vertici che in quello della base».
Non ha l’impressione che gli amori comunisti a volte fossero frutto del privilegio?
«A volte sì. C’era chi poteva permetterselo».
Guttuso non ha mai sacrificato l’istinto del maschio siciliano.
«Sì, ma da un certo momento in poi, agli artisti era concesso trasgredire. Mentre più imbarazzante sarebbe stato per un dirigente politico. Non dimentichi che il partito fino agli anni Ottanta conserverà una certa idea di purezza. Il richiamo che Berlinguer farà a santa Maria Goretti, come modello per la gioventù comunista, va in questa direzione».
Le sue radici, Castellina, sono borghesi, non le ha mai pesato aver scelto il Pci?
«È la mia storia. Quando sono entrata nel Pci mi sono autocriticata su tutto, rispetto alla mia provenienza. Ho ridimensionato l’Io a favore del noi, del comune».
Una grande individualità fu Sibilla Aleramo. Come la giudica?
«Fu anche lei iscritta al Pci. È stata un modello di libertà sessuale e di pensiero. In qualche modo con lei riprendeva corpo la tradizione socialista di Anna Kuliscioff, Alexandra Kollontai e in parte Tina Modotti».
A un certo punto ha fatto un accenno al suo ex marito.
«Ci siamo sposati nel 1953 e separati nel 1958. Volendogli molto bene ho sofferto nel lasciarlo. Ho impiegato anni a elaborare il distacco. Fu come tagliarsi un braccio. E non per la causa che condividevamo ma per il rapporto che avemmo. In ogni caso, siamo sempre restati amici». I suoi rapporti con il femminismo?
«Sono stati tardivi. Fui educata alla scuola dell’emancipazione femminile per cui le donne dovevano diventare come gli uomini. È stata mia figlia a rendermi cosciente che il problema non è di somigliare agli uomini ma di far valere la diversità delle donne».
Nel “Manifesto” lei e Rossana Rossanda avete rappresentato due modelli di emancipazione. Che rapporti avete avuto?
«Intensi, lunghi e importanti. È stata per me una maestra, non una collega. E poi siamo diventate come due sorelle. Litigammo a lungo al tempo della rottura fra il partito e il giornale. Ma il legame d’affetto ha avuto la meglio: tra noi e con Lucio Magri».
Con Lucio lei ha avuto una lunga storia d’amore.
«Siamo rimasti uniti per quarant’anni. Per un lungo tratto fedeli e poi liberi di avere altre storie, ma sempre stando insieme».
Un personaggio singolare Magri: ricco di intuizioni.
«Aveva una grande generosità intellettuale e acume, come dimostra la raccolta di suoi saggi che sto curando per il Saggiatore. Ma al tempo stesso era insopportabile per il suo integralismo. Detestava l’eclettismo».
Lei non lo ha accompagnato in Svizzera per assisterlo nella sua decisione al suicidio. Perché?
«Sarebbe stato particolarmente difficile andare, perché fino all’ultimo ho combattuto per impedirgli di farlo. E alla fine lui lo ha fatto di nascosto. È partito senza dirmelo, altrimenti lo avrei dissuaso».
Meglio compagni, mariti o amanti?
«Compagni è meglio. L’amante può essere la storia di una sera. Compagno puoi esserlo per la vita. E comunque meglio compagno che marito. Uno dà il senso di scelta che l’altro non offre. E poi: mentre è difficile avere molti mariti, è possibile avere molti compagni. Storicamente non è facile essere monogami».

 

La Repubblica 28 luglio 2012

 

 

 

 

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