di Massimo Villone

Lo speciale borsino della legge elettorale segue i mercati finanziari, ma in proporzione inversa. Se lo spread sale, la probabilità che si vada a votare con una legge nuova scende; se lo spread cala, la probabilità aumenta.
La variabile decisiva è il tempo. Se la crisi si aggrava, cresce la spinta a votare presto, magari già a novembre; il contrario, se c'è qualche segnale di miglioramento. Il tempo disponibile per cambiare il sistema elettorale non si calcola però guardando alla data del voto, ma a quella della indizione delle elezioni e della convocazione dei comizi elettorali, che cade almeno 45 giorni prima del voto, e che segna l'inizio delle procedure preelettorali. Anche se la nuova legge volesse abbreviare i termini oggi previsti, potrebbe farlo solo in minima misura.

Il tempo necessario per la presentazione di liste e candidature e per la campagna elettorale è sostanzialmente incomprimibile. Quindi, se si votasse all'inizio di novembre, la nuova legge dovrebbe essere stata approvata, promulgata e pubblicata entro la prima metà di settembre. Una probabilità abbastanza remota. Sarebbero poi impossibili innovazioni radicali come un ritorno al collegio. A meno di non riprendere il Mattarellum, disegnare la mappa dei collegi aggiungerebbe almeno un paio di mesi ai tempi minimi necessari.
La discesa in campo, da ultimo, di Mario Draghi e della Bce potrebbe concedere qualche tempo maggiore a un intervento legislativo. I punti su cui si concentra la discussione sono due: le liste bloccate e l'incentivo maggioritario alla governabilità.
Tutti concordano che un parlamento di nominati sia intollerabile. Per di più, la nomina non garantisce la fedeltà del nominato. E dunque le liste bloccate non hanno impedito i tradimenti e i cambi di casacca. Ma come uscirne? Il voto di preferenza sembra l'ovvia risposta. Una lista di candidati tra cui l'elettore sceglie, e risulta eletto nella lista chi prende più voti. Si è votato così per il parlamento fino al 1992, si vota così oggi per i consigli comunali e regionali.
Ma cosa significherebbe in concreto? Oggi nessun soggetto politico è in grado di governare nel suo complesso il meccanismo delle preferenze, orientando le scelte degli elettori. In partiti evanescenti i gruppi dirigenti a tutti i livelli sono troppo deboli per farlo. Cosa ne segue? Come appunto accade per i consigli regionali e comunali, la campagna elettorale si frantuma in una serie infinita di micro-campagne personali, in cui il peso prevalente viene espresso dai potentati locali del partito. I costi della campagna elettorale aumentano in misura esponenziale, con tutto quel che ne segue poi - dopo il voto - nella vita delle istituzioni. Per di più, la preferenza unica - oggi adottata per i consigli degli enti territoriali - scatena la competizione all'interno di ciascuna forza politica. Capi e capetti misurano i rapporti di forza in base ai candidati a ciascuno riferibili. E le assemblee elettive assumono una marcata connotazione neo-notabilare, in cui quel che conta davvero è il pacchetto di consensi di cui personalmente si dispone.
Un parlamento eletto in base alla preferenza non sarebbe diverso. È questo il parlamento che vogliamo? Soprattutto, è questo il parlamento che serve, in un momento di grave emergenza per il paese? Di fronte a una crisi che si prospetta ancora lunga e che, nel pensiero unico dominante, chiederà ancora "sacrifici" con perdita per tanti di conquiste sociali e diritti? Certamente no. Per questo, ad avviso di chi scrive, tra la preferenza e il ritorno a un modello fondato su collegi quest'ultima opzione sarebbe comunque preferibile.
Alle difficoltà di prospettiva l'opinione prevalente risponde poi affermando la necessità di mantenere i presidi alla governabilità e stabilità. In breve, consolidare l'impianto bipolare, affidare agli elettori la scelta di chi governa, assicurare la gruccia di un premio di maggioranza. Poco importa che queste parole d'ordine siano state ripetutamente smentite dall'esperienza di quasi vent'anni. Le sentiamo ancora tal quali.
Qui troviamo una singolare contraddizione. Perché abbiamo una "strana maggioranza" che vede insieme a sostegno dello stesso governo i due corni del sistema bipolare. E nessuno dubita che nell'emergenza di lunga durata che abbiamo di fronte si prospetti la necessità di convergere a sostegno di risposte e interventi largamente condivisi. Eppure, si afferma la preferenza per modelli che radicalizzano lo scontro, e confermano il bipolarismo coatto e di trincea che da tempo viviamo. Che senso ha un premio di maggioranza che gonfia i numeri parlamentari di chi vince oltre i voti conseguiti e deruba chi perde di un eguale numero di seggi, se poi bisogna avere il più largo sostegno per un medesimo governo e per le sue politiche? E quale maggiore stabilità può dare un bipolarismo costruito emarginando o negando la rappresentanza di forze che si presumono antagoniste, e per definizione inidonee per scelte di governo? Crediamo davvero che cancellarne i seggi varrebbe a cancellare la domanda sociale che in esse si esprime?
Il tempo dell'emergenza richiede istituzioni adeguate, la cui forza non si risolve nell'aritmetica parlamentare. Il buon senso dice che questo è il tempo giusto per tornare al proporzionale, a una piena rappresentatività dell'assemblea elettiva, a maggioranze e governi che si formino per accordi nella sede parlamentare e non siano ingessati dallo scontro elettorale. Queste sono le istituzioni giuste per l'emergenza. La saggezza dei padri fondatori ci aveva consegnato un sistema che bene risponderebbe, come infatti bene rispose nella gravissima crisi del 1992. Speriamo che i patrigni di oggi non combinino troppi pasticci.

 

il manifesto 31 luglio 2012

 

 

 

 

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