di Gianfranco Capitta

Il dolore per la morte di Renato Nicolini è soprattutto quello di una privazione di qualcuno insostituibile. Non solo per le chance che la sua presenza dava a una politica che pure lo ha sempre rifiutato, non gradito, messo ai margini mentre faceva posto, e si teneva stretti in primo piano i mediocri, magari incapaci, magari corrotti. Nicolini è e resterà insostituibile per qualcosa che ha fatto di molto concreto, qualcosa che lui stesso filosofava fosse «effimero», ma che si è rivelato duraturo come il marmo e inoppugnabile come un teorema copernicano. L'invenzione della «estate romana», la voglia di consumo culturale che ha snidato e attratto in centro la sera una popolazione che se ne stava chiusa in casa per paura e sfiducia, e che riscopriva invece, come in una saga delle favole antiche, quanto fosse «bello» vedere un film con altre migliaia di spettatori, vedere spettacoli che non avrebbe mai sognato di vedere, che fossero classici o elaborazione di avanguardia, ma in un luogo riconoscibile

e affidabile, dove il centro tornava a essere a disposizione delle periferie, beh quella invenzione ha attirato su di lui una gratitudine e una popolarità plurigenerazionale (il suo nome, come la sua creatura, sono entrati nel linguaggio comune), ma anche tanta animosità e tanto boicottaggio personale.

Ora Renato Nicolini è rimasto vittima di una orribile malattia, che lo ha colpito in meno di un anno prima ai polmoni e poi alla colonna vertebrale (lui che non ricordo fumasse, così come non guidava un'auto), e che ha cancellato in poco tempo quel volto da eterno ragazzo, quel sorriso inconfondibile che si era fatto insieme amorevole e scettico, curioso e insoddisfatto. Aveva settant'anni giusti, compiuti il primo marzo, e si diceva contento di andarsene finalmente in pensione dall'università. Da tanto tempo si sobbarcava ad andare e tornare dalla sua Roma a Reggio Calabria, sua sede accademica, dove però insieme alla sua compagna attrice Marilù Prati da tanti anni si spendevano per dare a quella città un laboratorio teatrale di livello adeguato. Così che erano riusciti a legare università e altri enti nella gestione del Teatro Siracusa, una grande struttura dove dare i classici e Pinter, le riscritture di Adele Cambria e quelle di Francesco Suriano. Con una vitalità e una perseveranza notevoli, che del resto gli venivano sempre da quell'invenzione degli anni 70.
Gianfranco Capitta Era stato allora che, giovane architetto, militante per quanto problematico nel Pci (di una genìa di architetti celebri, che contemplava tra gli antenati anche il famoso Piacentini), era stato chiamato a sorpresa dal mitico sindaco Giulio Carlo Argan come assessore alla cultura nella giunta capitolina di sinistra, che poneva termine alla lunga, soporifera e iperdevozionale amministrazione di centrosinistra ad egemonia dc. Poi ci sarebbero stati i sindaci Petroselli e Vetere, ma il nome di Nicolini si era nel frattempo fatto conoscere nel mondo. Perché erano i bui anni 70, e Roma si era chiusa in una spirale cupa di opposizione frontale quanto simbolica. L'invenzione del cinema a Massenzio, con megaproiezioni sotto le famose arcate imperiali di classici del cinema, attrasse irresistibilmente quasi fino all'alba il pubblico romano. Anzi i pubblici, perché c'erano famiglie e intellettuali, studenti e anziani, che si sarebbero moltiplicati ancora quando lo schermo diventò immenso, prospiciente l'arco di Costantino, e la platea si allungò fin quasi al Circo Massimo: e il muto Napoleon di Abel Gance risuonò di una partitura sinfonica dal vivo diretta dal maestro Coppola! I francesi son stati gli ammiratori più sfrenati dell'invenzione nicoliniana: Jack Lang la prese dichiaratamente a modello per costruire la sua fortuna come ministro della cultura della République.
Ma il cinema era solo la punta più vistosa dell'iceberg: tutte le arti hanno avuto da Nicolini, in quella felice stagione, un impulso che a Roma non si era mai visto, scatenando del resto gli studi dei sociologi come le chiacchiere al bar. In teatro il suo intervento non fu meno radicale: dalla conquista dei luoghi meno visibili per farne sede di spettacolo (e neanche facile, se si pensa a uno storico Britannicus di Racine nella chiesa dei Fori) ai molti palcoscenici in contemporanea del Parco Centrale di via Sabotino, alla riapertura degli argini del Tevere e della mussoliniana villa Torlonia, alla stessa nuova funzione fatta assumere al Teatro di Roma, che si convinse a promuovere e realizzare i progetti che provenivano anche dall'assessorato di piazza Campitelli. Nicolini era in grado di far risvegliare i pigri uffici amministrativi e le soprintendenze, con il sorriso e con la cocciutaggine. Se no, non si sarebbe mai realizzato quel vero evento storico del Festival dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano: poeti da tutto il mondo, spettatori da tutta Europa, emozioni da profondità marine.
Oggi, dopo soli 30 anni, tutto questo sembra archeologia lontana; o forse fantascienza, se rapportata ai balbettii insensati e senza fondamento di Alemanno e della sua giunta. Del resto Nicolini assessore, nonostante la fiducia e l'appoggio dei suoi sindaci e del suo pubblico, non ha avuto contro solo la destra più ovvia. Per la nota legge dell'invidia, soprattutto da parte di chi non riusciva a imitarlo pur provandoci incessantemente, lui non era amato certo a Botteghe oscure. Sia per l'incapacità a comprenderlo di quella generazione che lì a due passi dal suo assessorato non riusciva neanche ad affermarsi (ma oggi è ben solida al proprio posto), sia perché nessuna via preferenziale veniva accordata ai progetti provenienti «dal partito». Oltre alla concomitante insofferenza che per lui provavano i socialisti: uno di loro arrivò a farsi nominare vicesindaco pensando di poterlo meglio controllare! Nicolini, bisogna proprio dirlo, è rimasta sempre una persona onesta, giocherellone nei comportamenti quanto rigoroso sulla qualità dei progetti, quando vi scorgeva una radice culturale valida. Del resto così è arrivata Pina Bausch all'Argentina, Bob Wilson e Gavin Briars hanno composto un episodio di Civil War per il Teatro dellOpera, e Klaus Maria Brandauer è stato Jedermann sul Campidoglio come faceva davanti al duomo di Salisburgo. Senza Renato, sembra davvero un'altra era glaciale, di cui c'è rimasto in eredità solo il freddo disincanto.

 

il manifesto 5 agosto 2012

 

 

 

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