di Giuseppe Deriu

l semplice gesto di pigiare un interruttore per avere luce, far funzionare la lavatrice, il phon o qualunque altro apparecchio elettrico non desta stupore e non induce a riflettere sul duro lavoro che rende possibile utilizzare tutta questa energia. Così come indossare un gioiello, utilizzare un tegame in cucina, aprire e chiudere un infisso in alluminio. A un certo punto, però, irrompe la cronaca. Ampi e particolareggiati servizi sulla stampa, reportage sui telegiornali delle emittenti nazionali e regionali, l’avvenimento fa notizia: i minatori hanno occupato le miniere di carbone del Sulcis, sono barricati a 400 metri di profondità e sono disposti a tutto pur di salvaguardare un lavoro che la maggior parte della gente considera disumano e anacronistico.


Non capisce, questa gente, l’importanza del fatto che proprio quello è il loro lavoro, così come lo è stato dei loro padri e dei loro nonni. Non sa che i minerali bisogna andare a cavarli sotto terra. In tanti certamente avevano letto della ribellione dei minatori in Sudafrica, tragicamente macchiata dal sangue di molti di loro, sotto il fuoco della polizia; e anche di quella dei minatori delle Asturie in Spagna, da mesi in lotta perché, se perdono il lavoro, non sarebbe facile, per loro e per le proprie famiglie trovare un’altra fonte di reddito. Tanta gente sapeva, quindi, che i minatori esistono ancora. Eppure, quando queste lotte arrivano in Italia in molti sembrano non comprendere quegli uomini che ogni giorno, a fine turno, risalgono dentro gabbie di ferro dall’inferno di polvere nera, i visi intrisi di quella stessa polvere; maschere di fatica da cui risaltano occhi che sprizzano gioia perché ancora una volta possono restare abbagliati dalla luce del giorno. Si slacciano le pesanti cinture, quegli uomini che per sette lunghe ore hanno respirato l’aria dei ventilatori sotto centinaia di metri di montagna, e gonfiano i polmoni di aria che profuma di ossigeno. Finalmente, sopra la testa il cielo. Dunque, i minatori esistono ancora e resistono.

Perché tanto attaccamento a un lavoro in un ambiente così ostile, si chiedono in tanti? Perché rifiutare le soluzioni alternative che vari governi nazionali e regionali hanno loro proposto, tra cui la più gettonata, quella di trasformare la miniera in sito turistico? Ancora un museo! In un territorio che ne ha tanti che a stento occupano qualche ex minatore. Bonifiche, industria manifatturiera, turismo: proposte vuote, tentativi miseramente falliti. Intanto 5.000 buste paga sono andate perdute, e un’intera regione è in ginocchio. Questo perché qualcuno ha deciso che quelle industrie e quelle miniere sono antieconomiche, mentre da esse arrivano quelle produzioni di base di cui la nazione e l’Europa non dovrebbero fare a meno. Ma il mercato è globale e le sue regole ferree. Le industrie devono essere localizzate dove la manodopera costa poco e non ha diritti, dove i controlli sugli effetti ambientali sono laschi e i profitti altissimi. E poi c’è la crisi internazionale, con il sistema bancario da salvare riversando su di esso ingenti risorse pubbliche e la finanza che continua a creare il deserto intorno pur di salvare se stessa.

Le nazioni navigano a vista, ridotte a gruppi di potere che si scontrano per acquisire il controllo di quello che resta da sfruttare. Facciamo un salto all’indietro, all’inizio degli anni 80. Il governo italiano lancia il progetto di riattivazione delle miniere di carbone del Sulcis. Un miliardo e mezzo di tonnellate di combustibile solido giace nel sottosuolo. L’ultima e unica riserva nazionale. Stanzia le risorse necessarie, affida il progetto all’Eni: le produzioni dovranno andare ad alimentare le centrali termoelettriche dell’Enel. Nel 1993 però l’Eni dichiara fallito il progetto, perché l’Enel non ha rispettato gli accordi. Risultato: mille operai in cassa integrazione con la prospettiva della disoccupazione. Ciononostante in Italia l’energia costa mediamente il 30 per cento in più che negli altri paesi industrializzati. Eppure il nostro paese non ha risorse energetiche proprie e deve importare il 90 per cento del fabbisogno.

Dicono, per giustificare queste scelte, che il carbone che giace nel sottosuolo del Sulcis è ricco di zolfo e povero di potere calorifico. Poco importa se buona parte delle riserve di carbone nel mondo siano costituite da carboni della stessa qualità e negli Usa rappresentano il 50 per cento dei consumi. L’Eni dunque esce di scena e gli subentra la Regione autonoma della Sardegna. La musica non cambia di molto. Le maestranze invecchiano. Oggi la forza lavoro si è ridotta a 500 unità. Nel 1993 e nel 1995 lottavano in 1.000. Nel 2012 lottano in 500. E anche oggi, come allora, le ragioni della presunta non economicità sono le stesse: il prevalere di interessi più forti. Interessi che è difficile sostenere siano quelli della comunità nazionale e regionale, anche se è dietro a questa motivazione che i governi nazionali e regionali nascondono la loro incapacità o la loro subordinazione. Cosa potevano fare quei mille minatori allora e i cinquecento oggi? È come la lotta tra Davide e Golia.

Davide nel 1995 riuscì a respingere il tentativo di chiusura con mesi di dure lotte, mesi senza stipendio. E così il segnale della campana che fa muovere la gabbia ha ripreso a suonare per poco più di tre lustri. L’ascensore che porta i minatori a meno 400 metri dalla superficie li consegna a un lavoro defatigante, con la montagna che pressa sopra le loro teste e tecnologie moderne in un ambiente ostile che richiede coraggio, spirito di sopportazione e forza per poter estrarre quel minerale nero. Sforzi vani. Il carbone si ammucchia nei piazzali: l’Enel non rispetta i contratti e non lo prende.

Ancora il più forte che impone le proprie leggi. A niente servono i progetti di ottimizzazione dell’attività estrattiva integrata con la produzione di energia elettrica: un ciclo capace di ridurre l’impatto ambientale, di rendere economica l’attività, sviluppare la ricerca, mantenere un’attività strategica per la nazione, dare respiro a una regione stretta in un abbraccio asfissiante di una crisi economica ormai giunta all’insopportabilità. Lotte fuori dal tempo, qualcuno si è affrettato a dire, rispolverando schemi e motivazioni che si possono già leggere uguali nelle cronache di oltre trenta anni fa. Miliardi di vecchie lire, milioni di euro buttati via in gestioni miopi, incapaci di guardare oltre i brevi periodi fra le scadenze elettorali dei potenti di turno.

Proposte alternative che si risolvono immancabilmente in lunghi periodi di assistenza sociale mascherata: lavori socialmente utili, formazione, riqualificazione. Professionalità che richiedono anni di duro lavoro, abilità sempre più irreperibili, la dignità di uomini e donne, di intere comunità sacrificate alle stesse ragioni che sono state e sono la causa prima della crisi e che hanno gettato nella miseria milioni di persone, aggravando le contraddizioni di un pianeta sempre più in affanno. Dove sta allora la razionalità e chi è fuori dal tempo? I minatori che lottano o i rapaci dell’alta finanza e della speculazione che continuano ad arricchirsi, a fare i propri comodi e “di tutto il resto chi se ne frega”? L’interruttore che utilizziamo con la semplice pressione di un dito dovrebbe qualche volta indurci a riflettere che dietro alla disponibilità dell’energia che ha reso comoda la nostra vita c’è la fatica di uomini e donne che con intelligenza, coraggio, determinazione e abnegazione continuano a tenere accesa la fiaccola della dignità del lavoro.

* Ingegnere meccanico, direttore generale della Carbosulcis dal 1996 al 2010

 

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