di Francesco Paternò
La Fiat esce indenne dall'incontro con il governo durato oltre cinque ore e mezza. Nel comunicato congiunto delle 21,40, del piano Fabbrica Italia e degli investimenti per 20 miliardi entro il 2014 non si parla più, come aveva già annunciato Sergio Marchionne; si ricordano piuttosto 5 miliardi di investimento «realizzato negli ultimi tre anni». Fiat e governo faranno un gruppo di lavoro comune, mentre il futuro degli stabilimenti italiani e dei suoi lavoratori è affidato (come sempre Marchionne aveva anticipato) alla capacità di esportare all'estero di alcuni prodotti e agli utili provenienti dalla Chrysler e dai mercati americani.
In cambio, la Fiat non «ha chiesto soldi al governo» per la cassa in deroga, fanno sapere ufficiosamente dal governo. Anche perché se così fosse stato, per Monti sarebbe stata più che una Caporetto.
«Fiat ha confermato - si legge nel comunicato - la strategia dell'azienda a investire in Italia, nel momento idoneo, nello sviluppo di nuovi prodotti per approfittare pienamente della ripresa del mercato europeo». Addio Fabbrica Italia, Fiat investirà forse e soltanto in quel «momento idoneo» che per Marchionne non verrà prima del 2014, quando prevede che i mercati europei risaliranno e sempre che poi accada davvero. Fino ad allora, nelle fabbriche italiane ci sarà più cassa integrazione che nuovi modelli. Ma nessuna verrà chiusa, par di capire, così come aveva anticipato nell'intervista a Repubblica.
Ma cosa hanno discusso per quasi sei ore a Palazzo Chigi, se questo è il risultato? Per il governo erano presenti il presidente del Consiglio Mario Monti, i ministri Corrado Passera, Elsa Fornero, Fabrizio Barca e il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà. Per il gruppo Fiat erano presenti il presidente John Elkann e l'amministratore delegato Sergio Marchionne. Nel comunicato, si legge ancora che Fiat e governo costituiranno «un apposito gruppo di lavoro presso il ministero dello Sviluppo Economico per individuare gli strumenti per rafforzare ulteriormente le strategie di export del settore automotive». E ancora: «Fiat è intenzionata a riorientare il modello di business in Italia in una logica che privilegi l'export», manifestando «piena disponibilità a valorizzare le competenze e le professionalità peculiari delle strutture italiane, quali ad esempio l'attività di ricerca e innovazione». Parole, considerando che molto di questo è stato già trasferito alla Chrysler e il governo finge di non saperlo. Perché ancora nel comunicato si legge che «il governo ha apprezzato l'impegno assunto nel corso della riunione a essere parte attiva dello sforzo che il Paese sta portando avanti per superare questa difficile fase economica e finanziaria». La Fiat ringrazia ed esprime «apprezzamento per l'azione del governo che ha giovato alla credibilità dell'Italia e ha posto le premesse, attraverso le riforme strutturali, per il miglioramento della competitività, oltre che per un cambiamento di mentalità idoneo a favorire la crescita».
Insomma Monti, dopo aver dato una prima volta carta bianca a Marchionne sostenendo che un'azienda privata fa come vuole, lascia nuovamente la porta spalancata a Marchionne. Che può azzerare gli investimenti per 20 miliardi di euro perché i mercati non tirano, senza dare nulla in cambio se non altre promesse di fare qualcosa «nel momento idoneo» per l'azienda e di mettere in piedi un gruppo di lavoro comune al ministero dello Sviluppo. Ben poca cosa anche per Passera, che alla vigilia aveva fatto scintille con il manager e che certo non ha bisogno di un gruppo di lavoro per sapere come vanno le cose alla Fiat.
Da banchiere, Passera nel 2002 insieme ad altre sette banche aveva concesso un mega prestito alla Fiat, salvandola dal default. Nel 2005 evitò di convertire il prestito in scadenza di 3 miliardi di euro permettendo agli Agnelli-Elkann di tenersi, in modo non trasparente, la quota di controllo del 30% della Fiat. E sempre Passera, ancora banchiere nell'estate dell'anno scorso, la mandò a dire a Marchionne: «Tra i problemi che bloccano la nostra crescita non metterei tra i primi quelli dei rapporti con il sindacato». Altri tempi.
il manifesto 23 settembre 2012