di Alfonso Gianni

Fino a qualche tempo fa andava di moda sostenere che bisognava abolire il Cnel, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, giudicato un ente pletorico ed inutile. Non se ne fece niente anche perché, trattandosi di un organo costituzionale, sarebbe stato necessario modificare o sopprimere l'articolo 99 della nostra Costituzione.
Certamente si tratterebbe di attuare una profonda riforma nel suo funzionamento, rimotivarlo e snellirlo, cosa che si può fare senza toccare il dettato costituzionale, ma soprattutto bisognerebbe ascoltarlo quando fa qualche cosa di buono. E' il caso del ponderoso rapporto (350 pagine) sul mercato del lavoro presentato in questi giorni. Gli argomenti trattati sono molti. Tra questi alcuni attirano l'attenzione soprattutto per comprendere le cause della profonda recessione che attraversa l'Europa e in particolare il nostro paese.


Le cifre del declino industriale dell'Italia sono squadernate senza pietà. Il loro esame mette in luce alcuni aspetti meno evidenti e forse volutamente dimenticati. Lungo gli anni Settanta l'Italia era tra i paesi più virtuosi in termini di produttività. Nel decennio 1970-1979 il valore aggiunto al costo dei fattori del settore manifatturiero era cresciuto nel nostro paese del 6,5 per cento l'anno, contro un incremento del 5,4 per cento in Giappone o di circa il 4 per cento in Francia e in Germania. Nel primo decennio del Duemila la nostra performance si ferma a un misero 0,4 per cento, peggio della Spagna per intenderci.

Eppure, come tutti sanno, la conflittualità sociale era al massimo negli anni settanta. Basta confrontare il numero delle ore di sciopero in quel decennio con quello attuale. La bassa produttività non nasce quindi dall'intensità del conflitto (anche Romiti lo ha compreso con il senno di poi), ma da altri fattori che riguardano le responsabilità del capitale e dell'organizzazione del lavoro, nonché del sistema produttivo nel suo complesso. Scaricare le cause del declino sui lavoratori è quindi sbagliato non solo sotto un profilo etico-politico, ma anche statistico.

Forse Marchionne avrebbe dovuto leggere queste pagine preparate dal team dei ricercatori coordinati da Carlo dell'Aringa, studioso di tendenze molto moderate, assai gradito a Cisl e a Confindustria, prima di affermare a propria discolpa che il mercato dell'auto in Italia sarebbe crollato "su una riforma del mercato del lavoro" che avrebbe innescato più di 70 cause della Fiom.

Il drastico calo di produttività, in Italia assai più marcato che altrove, porta con sé il crollo di competitività. Le politiche rigoriste inibiscono investimenti pubblici in settori strategici e riducono ulteriormente la capacità d'acquisto a causa di una diminuzione del valore reale e persino nominale delle retribuzioni, mentre l'occupazione si contrae ulteriormente. Il numero delle ore lavorate diminuisce, mentre aumentano i lavoratori precari e il part-time involontario.

Nonostante questo, osserva il Rapporto Cnel, nel 2011 ci sono stati 96mila posti in più sul 2010. Ma si tratta di anziani, trattenuti al lavoro dalla riforma pensionistica che li penalizza, mentre si sono persi dal 2008 ad oggi circa un milione di occupati nella fascia che arriva fino ai 34 anni. Anziché preoccuparsi di ringiovanire il Cnel (cosa in sé utile) varrebbe la pena di concentrarsi su come ringiovanire e rafforzare la struttura occupazionale del nostro paese. Altrimenti il futuro lo abbiamo alle spalle.

 

huffingtonpost.it

 

 

 

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