di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini
Oggi vi è un consenso molto ampio sul fatto che per superare la crisi sia necessario rilanciare la crescita dell’economia. Qualunque critica si possa muovere alla crescita, in nome di qualunque principio, è destinata a suscitare anatemi. La crescita non è una scelta ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico: venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione corale.
Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile.

Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi.

Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” come si afferma nel titolo di un recente libro di Tim Jackson?

Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere.

In concreto, si tratta di promuovere un formidabile progresso tecnologico e una decisa svolta morale per modificare sia l’evoluzione della tecnica sia la psicologia del consumatore il quale dovrebbe acquisire maggiore consapevolezza delle sue azioni e dell’impatto che esse provocano nella società e nell’ambiente naturale. Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico.

Uno degli aspetti fondamentali riguarda la riconversione ecologica dell’economia e implica il cambiamento del modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche. Un modello che si è affermato da circa duecento anni e che, nonostante innovazioni come l’elettricità, l’informatica e le telecomunicazioni, continua ad essere dominante.

Un processo di riconversione ecologica dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di persone.

Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di impoverimento sociale, economico e ambientale.

Per uscire dalla crisi, dunque non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale.

 

Repubblica, 9 novembre 2012

 

 

 

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