di Carmine Fotia

Come recitava un famoso slogan del manifesto, («dalla parte del torto»), sto dalla parte di Antonio Di Pietro.
La denuncia di Report (Raitre), si fonda su fatti esaminati da molti tribunali, e il leader dell'Idv ne è sempre uscito assolto. L'inchiesta televisiva presenta "errori" imperdonabili, come scambiare una particella catastale con un appartamento, facendo così lievitare fino a un numero stratosferico le proprietà immobiliari di Di Pietro. Mi domando che giornalismo investigativo sia mai questo. Oppure quello che insinua, senza dimostrarlo, che Di Pietro abbia usato i soldi del finanziamento pubblico per acquistare i propri immobili.

Sicchè un fatto indimostrato, per pigrizia o malafede, diventa una verità che rimbalza da un talk show all'altro. Che sia questa la qualità della nostra informazione televisiva lo sappiamo e lo denunciamo da tempo. Solo che c'è chi denuncia il malcostume del killeraggio giornalistico solo quando colpisce la propria parte e resta invece muto e consenziente quando si abbatte su chi viene considerato l'avversario.
Si usano accuse vecchie, e smentite da sentenze, per schiantare una formazione politica che ha rappresentato l'unica opposizione parlamentare di centrosinistra al governo Monti. Tra le forze politiche parlamentari, l'unica che, nel conflitto tra la procura di Palermo e il Quirinale, si è schierata con i magistrati.
In sostanza, dinnanzi a un quadro politico parlamentare chiuso in un pensiero unico con qualche variante, l'Idv di Di Pietro ha mantenuto, in modo certamente imperfetto, il ruolo di portavoce nel Palazzo di milioni di cittadini.
Ricordo, agli scettici di sinistra che non hanno mai digerito Di Pietro, che, senza il suo contributo, non avremmo potuto votare per i referendum sui beni comuni ed oggi non potremmo raccogliere le firme per quelli sul lavoro. Tuttavia, evangelicamente, penso che oportet ut scandala eveniant. Infatti, lo scandalo ha aperto un dibattito, certamente tardivo ma non meno necessario, sull'Italia dei Valori, sulla sua identità, sul suo destino.
La ragione per cui l'attacco a Di Pietro si trasforma in crisi dell'Idv non deriva dalla naura personaledel partito. Tutti i partiti lo sono diventati nell'era del maggioritario e della personalizzazione della leadership. Vale per il Pdl, per Sel, per la Lega e per l'Udc. In qualche misura vale anche per il Pd (lo ricordano le polemiche contro Veltroni).
La leadership dell'Idv è sempre stata contendibile nei congressi. Non si tratta quindi di regole interne (pure importanti): la degenerazione personalistica o la torsione proprietaria delle formazioni politiche sono l'esito della crisi dei partiti novecenteschi. Come scrive Piero Ignazi nel suo recente e bel saggio Forza senza legittimità, i partiti sono «Leviatani claudicanti, colossi dai piedi d'argilla...forti potenti e ricchi si sono ritirati e rinchiusi in un giardino di delizie, riservato esclusivamente a loro stessi.... I partiti pagano il loro potere con la perdita di legittimità».
Nel voto siciliano tale perdita di legittimità si esprime nell'astensione o nel voto a Grillo. Il "vincitore" non solo non ha una maggioranza nell'assemblea regionale, ma rappresenta una piccola minoranza degli elettori. Invece di riflettere su come rilegittimarsi i partiti pensano a come aggirare il voto (e il non voto) con una modifica della legge elettorale che non produca alcun vincitore, per paura di Grillo.
La ragione politica della crisi dell'Idv nasce dal fatto che un movimento fondato sulla critica al vecchio sistema dei partiti, quando questo esplode, si ritrova come ceto politico tra il ceto politico, e deve cedere il testimone al Movimento 5 Stelle, che non raccoglie solo una protesta "qualunquista", ma anche il voto di molti cittadini che si sono riconosciuti nei movimenti e nelle campagne degli ultimi anni, anticasta e antiliberisti.
Le analisi di Corbetta sul voto siciliano mostrano come una gran parte del voto alla lista di Grillo sia venuto da un elettorato di sinistra disilluso. Il problema non è salire sul carro di Grillo ma , togliattianamente, trovare linguaggio e forme per parlare anche ai suoi elettori.
La critica che muovo all'Idv, dunque, non è la stessa che gli rivolge la maggioranza del ceto politico-intellettuale, cioè di essere troppo radicale, ma di esserlo stata troppo poco.
La sfida, infatti, oggi riguarda la politica nel suo insieme, la necessità di ritrovare legittimità, dando risposte alle domande dei molti, colpendo i privilegi dei pochi, offrendo ai cittadini i luoghi e i modi per partecipare direttamente. La campagna elettorale e la vittoria di Barack Obama sono l'ottimo segnale di una possibile e vincente radicalità democratica.
Insieme a Leoluca Orlando e ad altri, da tempo abbiamo rilanciando l'idea della Rete non come un nuovo partito, bensì un lievito culturale per una riforma della politica dal basso, un "movimento di democrazia costituzionale" che muova dalla richiesta della piena attuazione dell'articolo 49 della costituzione sulla democrazia nei partiti. In modi diversi, oggi, si discute della necessità di una nuova aggregazione, ne parlano formazioni politiche, sindaci, organizzazioni sindacali come la Fiom, gli intellettuali che hanno firmato l'appello di Ginsborg, Gallino, Revelli e altri.
La rifondazione di una democrazia costituzionale non può essere compito di una lista, né è un percorso di breve durata, tuttavia si può compiere un primo passo con un'aggregazione che non sia la sommatoria di vecchi partiti (come fu Sinistra Arcobaleno) ma che superi le vecchie appartenenze perraccogliere la domanda di nuova politica che viene dai cittadini.
L'Idv, per la sua storia, non può entrare dalla porta di servizio in un'alleanza innaturale con l'Udc. Può invece proporsi come il motore di una riaggregazione che ascolti le ragioni della protesta e proponga a tutto il centrosinistra una alternativa alle politiche neo-liberiste, oppure scegliere di dar vita a un polo alternativo in competizione con un centrosinistra che scegliesse la continuità con Monti.

 

il manifesto 10 novembre 2012

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