di Eleonora Martini

«Coraggio amici, il meglio è passato». Cita un aforisma di Ennio Flaiano, il direttore generale del Censis Giuseppe Roma per descrivere lo stato d'animo che si respira nella società italiana in questo fine 2012. Una fotografia, quella scattata quest'anno nel 46° rapporto sulla situazione sociale del Paese, che è sotto gli occhi di tutti, in bella mostra nell'album di ciascuna famiglia italiana.
La descrive così Giuseppe De Rita, il presidente del Censis: «Volge al termine un anno segnato da una crisi così grave da imporre l'assoluta centralità del problema della sopravvivenza; una centralità quotidianamente alimentata dalle preoccupazioni della classe di governo, dalle drammatizzazioni dei media, dalle inquietudini popolari».

In poche parole, «la paura di non farcela». Che «non ha risparmiato alcun soggetto della società: individuale o collettivo, economico o istituzionale»: le famiglie come le aziende, lo Stato come l'Unione europea. Una crisi che ha «aumentato - lo sappiamo - la distanza tra il popolo e il governo», tra istituzioni politiche e soggetti sociali. Gli italiani si sentono sempre più europei ma aumenta la diffidenza verso le istituzioni dell'Unione. «Separati in casa»: così viviamo, rabbiosi, frustrati e disgregati come non mai. La «crisi delle democrazie rappresentantive che attraversa gran parte delle società europee, ma assume in Italia caratteri più radicali e una diffusione più consistente», ha prodotto una «forte disponibilità dell'opinione pubblica all'indignazione e alla mobilitazione». E allora che si fa, si scende in piazza? No: la piazza ha «perso gran parte della capacità di coinvolgimento e di impatto sull'opinione pubblica», mentre «emergono forme meno convenzionali, più creative» e anche «più trasgressive», che puntano alla «reinvenzione dello spazio urbano». E allora ecco che nel rapporto Censis entra anche il Teatro Valle di Roma.
Le famiglie e i lavoratori vivono per così dire, in apnea. «Risparmio, rinuncio, rinvio» sono le «tre R» con cui il Censis descrive il crollo delle spese. Nel 2012 i consumi reali pro-capite, pari a poco più di 15.700 euro, «sono tornati ai livelli del 1997». Anche la mitica propensione al risparmio degli italiani cala dal 12% del 2008 all'attuale 8%. C'è uno «smottamento del ceto medio» (ce ne siamo accorti) e l'indebitamento delle famiglie è cresciuto negli ultimi dieci anni dell'82,6%. «Nel primo trimestre 2012 la flessione delle spese delle famiglie è stata del 2,8% e nel secondo trimestre vicina al 4% in termini tendenziali». Si vendono gli ori e i beni preziosi di famiglia («circa 2,5 milioni di famiglie lo hanno fatto negli ultimi due anni»); «l'85% delle famiglie ha eliminato sprechi ed eccessi e il 73% va a caccia di offerte e alimenti meno costosi». Crolla la vendita delle auto (25% immatricolazioni in meno, ma c'è il boom dei car-sharing), va bene solo quella delle biciclette. Il 2,6% delle famiglie ha venduto un immobile senza ricomprare: meglio l'affitto per una quota familiare che ha raggiunto il 21% e nelle aree metropolitane sfiora il 30%. In molti, soprattutto nelle città, trasformano perfino il proprio alloggio in un piccolo bed & breakfast. Undici milioni di italiani hanno cominciato a coltivare un piccolo orto, e invece di comperare cibi e conserve pronte li preparano in casa. Solo telefonini e tablet sono in aumento, forse perché cresce il bisogno di solidarizzare e di connettersi in rete (sociale). Il tasso di penetrazione del web è arrivato al 62,2% (+ 9% nell'ultimo anno), e quasi la metà della popolazione utilizza almeno un social network (ma i quotidiani perdono dal 2007 a oggi il 3,7% delle vendite). D'altronde, «di fronte al ritrarsi del welfare pubblico scatta la solidarietà familiare, con un esborso annuo complessivo intorno ai 20 miliardi di euro nelle famiglie a favore di un proprio componente». Come al solito, «le famiglie giocano il ruolo di agenti della redistribuzione», visto che «manca di fatto una logica redistributiva forte nel sistema italiano, a fronte di un sovradimensionamento del welfare assicurativo».
Del buio che attanaglia imprese e istituzioni formative vi parliamo più approfonditamente in queste pagine. Basti sapere che alle donne è affidato il magro portafoglio delle famiglie in questa fase, e che tra le tante imprese che chiudono resistono di più e meglio quelle a conduzione femminile. Ma l'importante è la salute. Appunto. Nel 2011 i cittadini hanno tirato fuori di tasca loro, per acquistare beni e servizi sanitari, ben 28 miliardi di euro, pari all'1,76% del Pil. Spese che in Europa chiamano out of pocket e che in Italia, aggirandosi intorno al 17,8% della spesa sanitaria complessiva, superano quelle di altri Paesi come Francia (7,3%), Regno Unito (8,9%), Germania (13,2%), Usa (11,8%) e perfino Irlanda (17,4%). Nulla di strano se da noi avere in casa un malato grave, cronico o un portatore di handicap equivale, per una famiglia di ceto medio, a impoverirsi: il numero medio di ore erogate per ciascun paziente preso in carico dall'assistenza domiciliare integrata, infatti, è stato nel corso di un intero anno (2008) di sole 22 ore circa.
Il futuro, poi, è più che mai offuscato dalla paura, soprattutto per i giovani, visto che «c'è stato uno slittamento della ricchezza verso le componenti più anziane della popolazione». Ma fa impressione vedere che il domani è segnato, per gli italiani, dalla continua crescita di fenomeni come la corruzione, l'evasione fiscale, le attività criminali, il malaffare politico e perfino la mercificazione del corpo. Gli unici che possono permettersi di non aver paura sono evidentemente coloro che appartengono a quel 12,5% di famiglie (raddoppiate negli ultimi dieci anni) con una ricchezza netta superiore a 500 mila euro.

 

il manifesto 8.12.2012

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