di Carlo Altini

«Rousseau e gli altri» di Alberto Burgio per DeriveApprodi

La ricerca di forme partecipative che fermino le derive oligarchiche o plebiscitarie presenti nei sistemi politici Una attenta analisi del percorso teorico del filosofo ginevrino e la sua ricezione nel pensiero politico L’ideologia democratica è oggi un fattore di conservazione o di progresso? Se riteniamo che possa essere un fattore di conservazione perché funzionale alla tutela degli interessi costituiti e delle rendite di posizione delle classi dirigenti, allora risulta necessario ripensare le modalità con cui la teoria democratica si è venuta sviluppando non solo negli ultimi decenni ma anche nel corso dell’intera modernità.

Non c’è bisogno di utilizzare le teorie dell’élite di inizio Novecento per vedere che la deriva conservatrice della democrazia è oggi evidente negli esiti patologici del consenso populistico-plebiscitario che innerva il dispotismo «morbido» tipico delle post-democrazie contemporanee, esito del declino della rappresentanza e della supremazia di oligarchie cosmopolitiche che si formano in modo non trasparente all’incrocio tra politica, economia e comunicazione. Il problema non è però nuovo. È nota l’analisi di Alexis de Tocqueville sulle forme di passività che tolgono significato a parole quali partecipazione e autogoverno: all’essenza della democrazia non è estraneo l’avvento di una società passiva, statica, frammentata e incapace di effettivo mutamento, governata in modo paternalistico da un potere che parla a individui isolati, chiusi nei loro interessi privati. Ma già Rousseau – sul cui sentimento democratico non è possibile nutrire dubbi – aveva visto questo «volto di Medusa» della democrazia moderna, in cui la lotta contro il particolarismo utilitaristico degli «spiriti animali» non termina, anzi inizia con l’istituzione della società civile. Ed è allora in questa prospettiva che deve essere letto il libro Rousseau e gli altri: teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento di Alberto Burgio (DeriveApprodi, pp. 252, euro 18).

Il nodo dell’ancien régime
Apparentemente si tratta di un libro di storia della filosofia politica, dedicato in prevalenza all’analisi del Contratto sociale di Rousseau e dei suoi interpreti (da Kant a Cassirer, da Constant a Hegel, da Talmon a Berlin), con particolare riguardo al dibattito italiano (Mondolfo, Gramsci, Bobbio, Della Volpe, Colletti, Gerratana). Ma, come tutti i buoni libri di storia della filosofia politica, è anche un libro di filosofia politica e di analisi del mondo contemporaneo. La modernità – di cui il pensiero di Rousseau è una pietra miliare – nasce come critica contro i privilegi e gli arbitri: in una parola, contro l’ancien régime. Questa lotta è per certi aspetti coronata da un innegabile successo: legittimo, in età moderna, appare solo l’ordine sociale che rispetta i diritti individuali e che plasma assetti di potere democratici. Tuttavia le cose non sono così semplici.
Le promesse universalistiche elaborate dalle rivoluzioni borghesi sono andate disattese, tanto che i fattori di dominio e di sfruttamento si sono riprodotti – pur nelle mutate condizioni storico-sociali – secondo una consueta logica gerarchica. Si tratta di una deriva che attraversa due secoli di storia europea, dal bonapartismo a oggi, e intorno alla quale secondo Burgio conviene recuperare il discorso dei classici, Rousseau e Marx in particolare: «Uomini del Sette e dell’Ottocento leggono con chiarezza processi che ai loro tempi sono in embrione e che ai nostri giorni squadernano effetti devastanti. Ma ai nostri giorni questa evidenza non è più riconosciuta. Il capitalismo è «globalizzato», il colonialismo è il connotato saliente della nostra epoca e la critica è alla macchia, sopravvive in forma di eresia». Il problema di una democrazia «radicale», sostanziale e non formale, continua dunque a esistere, ancora oggi.
Consapevole della contraddittorietà delle passioni umane, Rousseau mira a evitare che l’individualismo agisca come fattore di prevaricazione, svuotando l’«interesse generale» (cioè la giustizia sociale) che innerva la democrazia. In breve: Rousseau comprende che la modernità deve essere salvata da se stessa, che la democrazia deve essere salvata non tanto dai nemici della democrazia, quanto dalle stesse premesse della democrazia moderna, in particolare dalla degenerazione particolaristica dell’autonomia personale, che trasformerebbe la legittima cura di sé in un insanabile contrasto tra interessi privati e che condurrebbe alla dissoluzione della società. È il problema con cui ha a che fare – al netto delle trasformazioni produttive e tecnologiche – anche la democrazia contemporanea: Rousseau vede dunque precocemente il dilemma fondativo della modernità, sempre oscillante tra democrazia e capitalismo, tra eguaglianza e libertà, intuendo che solo dopo un profondo cambiamento della struttura sociale capitalistica sarà possibile produrre una forma politica davvero democratica.
L’analisi di Burgio del Contratto sociale è raffinata e minuziosa – notevole, per esempio, la sua critica dell’identificazione tra Rousseau e la tradizione contrattualistica – ma qui interessa il cuore teorico del problema: nonostante gli sforzi del filosofo ginevrino tesi a evitare il conflitto tra la razionalità sociale e l’antropologia utilitaristica, il contrasto tra interessi privati e interesse generale non viene risolto nemmeno nella democrazia moderna. Infatti il criterio di legittimità della «volontà generale» non può fondarsi sul mero criterio quantitativo della maggioranza: la volontà collettiva è davvero generale solo se riflette l’interesse comune del popolo in sé, indipendentemente dal numero dei voti favorevoli. Non sempre le deliberazioni popolari sono giuste perché la maggioranza può affermare un interesse particolare: le preferenze espresse dalla maggioranza del corpo politico non sono in quanto tali la base di deliberazioni legittime, visto che è il criterio oggettivo della volontà generale a rendere ragione del bene della collettività. Sebbene il popolo voglia il proprio bene, non sempre lo vede e talvolta si inganna a causa del sopravvento di interessi particolari: non basta dunque che la decisione sia partecipata, cioè democratica, perché deve anche essere giusta.

In nome del bene morale
Questo scetticismo di Rousseau nei confronti della capacità del popolo a individuare il bene comune è tanto più interessante in quanto giunge da un sincero esponente democratico: la richiesta che viene pertanto rivolta alla democrazia è quella di diventare una democrazia «radicale», che – promuovendo la diffusione delle virtù civiche attraverso una mutazione antropologica dalla logica dell’utile strumentale alla logica del bene morale – si prenda davvero cura della dimensione «materiale» dell’esistenza collettiva e non solo delle questioni «formali» dell’architettura politica. Una tale riflessione critica sul principio di legalità indica quanto Rousseau fosse consapevole dei rischi plebiscitari, oligarchici e carismatici che incontra la democrazia moderna: il Contratto sociale costituisce quindi una premessa indispensabile nella critica dell’ideologia democratica perché è un contributo alla comprensione dell’insufficienza del piano formale e procedurale nella formazione delle decisioni collettive. Si tratta di un’avvertenza utile proprio oggi per tutti noi, soprattutto per coloro la cui attenzione è focalizzata non sulle condizioni materiali dell’esistenza storico-sociale ma su sondaggi, primarie, par condicio, «regole del gioco» et similia.

 

il manifesto 7.12.2012

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