di Sandro Medici
Ecco s’avanza uno strano progetto. Parafrasando un’antica canzone popolare, si può così definire la proposta “cambiare si può”, che in queste settimane sta attraversando la sinistra italiana, da una trincea all’altra, da una riunione a un’assemblea, da una chiacchiera a un ragionamento. Viene da pensare, ancora prima di valutare politicamente tutto ciò, che come al solito si sta stratificando un eccesso di discussione, un estenuante confronto (formale e informale), insomma un’ansiosa, esagerata dialettica.
Va bene o non va bene? Dove andiamo, ma dobbiamo per forza andare da qualche parte? Chi siamo, ma poi siamo davvero qualcosa oppure ci stiamo autoingannando? E’ qui la sinistra o ci stiamo arrovellando intorno a uno stato d’animo? Ma poi, è proprio obbligatorio quest’arancione?
In attesa di rispondere a tutti questi interrogativi, cosa che potrebbe andare avanti per lungo tempo, oltreché non riuscire a trovare approdi certi, ci si potrebbe intanto affidare a Bob Dylan, che già quarant’anni fa sosteneva che “la risposta è nel vento”. Lasciando che gli arrovellatori si arrovellino, è bene comunque esplorare questa nuova occasione che ci viene offerta. E non perché, di questi tempi così avari e avversi, appare come l’unica possibilità di non restare schiacciati nei nostri angoletti minoritari. Sarebbe davvero avvilente, se (solo) così fosse.
In questo progetto c’è molto altro: c’è un sistema critico e una visione culturale che insieme compongono un’alternativa possibile. Un combinato di contenuti politici che allude a un orizzonte raggiungibile: beninteso, attraverso l’opera di contrasto e l’azione di lotta contro il pensiero unico panfinanziario che ci domina e condiziona. Mai prima d’ora si era registrata un’omogeneità, un consenso tanto larghi intorno a un comune sentire che di fatto è già diventata una piattaforma politica. Il lavoro, lo stato sociale, il modello economico, la cultura, l’ambiente, i diritti civili, le libertà. In sostanza, tutto quello che il sistema politico dominante nega o mistifica.
C’è dunque da far vivere tutto ciò in una concreta prospettiva, che riunisca forze e intelligenze in grado di animarla e gestirla. Un passaggio difficile perché sappiamo quanto le nostre soggettività (singole e collettive) siano alquanto restie a confondersi e contaminarsi. Non per diffidenza o, peggio, sfiducia nell’altro, ma perché siamo l’esito, piaccia o non piaccia, di storie e culture non proprio leggerissime, che spesso c’imprigionano e ci accartocciano. E siccome a nessuno permetteremmo di usare la carta vetrata per smussare i nostri spigoli, ecco che questo transito lo dobbiamo attraversare volontariamente. Lasciando lungo la strada qualche certezza e raccogliendo più d’un dubbio.
Del resto, sarebbe sbagliato per chiunque ritenersi depositario di verità inconfutabili da brandire come un primato egemonico. Né, d’altra parte, si può rinunciare al consolidato di esperienze che comunque agiscono e sono presenti.
E’ che siamo, tutti e tutte, una parzialità, un’insufficienza. E che dunque abbiamo bisogno degli altri e delle altre. Si tratta allora di riconoscersi reciprocamente partecipi di una battaglia comune, attribuirsi pari dignità e predisporci a imparare piuttosto che a insegnare.
Non è un appello stucchevole al vogliamoci bene, ai buoni sentimenti, poiché sappiamo che in fondo nessuno è disponibile a rinunciare a se stesso. E’ anche, indubbiamente, un esercizio di generosità. Ma è soprattutto l’unica condizione che può permettere di realizzare quanto intendiamo raggiungere. Se poi, lungo questo itinerario, riuscissimo anche a tratteggiare un modo diverso di stare insieme, di costruire un’organizzazione senza gerarchie né burocrazie, chissà, potremmo perfino contribuire a definire quella nuova forma della politica che ci permetterebbe di affrancarci dal nostro passato. Senza rimorsi né rimpianti.
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