di Sergio Cesaratto

Che fine hanno fatto gli economisti di sinistra? Qualcosa del genere qualcuno si chiedeva sul manifesto di qualche secolo fa. Nonostante il grande sforzo profuso in questi anni sul web, in e-book (come «Oltre l’austerità») e assemblee, il loro impatto sui programmi elettorali delle formazioni della sinistra appare assai lieve. Per non parlare dell’idea di portare in Parlamento le competenze necessarie per condurre a livello adeguato la battaglia contro l’austerità e per un’Europa diversa.

Per questi economisti critici non giungono certo come una novità le conclusioni a cui arriva il working paper, firmato nientemeno che dal capo della ricerca del Fmi Oliver Blanchard e richiamati dal manifesto di giovedì, per cui gli effetti delle politiche di austerità sulla crescita sono state sottostimate. Questa è gente che ha sempre sbagliato tutto, sin da quando Blanchard e Giavazzi guardavano ai flussi di capitale dai paesi europei più ricchi verso la periferia come un fenomeno che ne avrebbe sostenuto la crescita, e non come l’alimento di bolle immobiliari e di una crisi del debito. Eppure l’esperienza dei paesi emergenti doveva insegnarglielo. Eppure sul testo di Blanchard-Giavazzi i nostri studenti continuano a essere indottrinati. Eppure il Pd candida Giampaolo Galli come per ribadire una sorta di allineamento del partito all’economia politica «volgare» e di prossimità ai gangli dominanti del potere economico.

Al di là dell’esito elettorale, sono Monti e quest’Europa che rischiano di dettare l’agenda. Dietro il fumo, la sostanza dell’Agenda Monti è un progetto di rilancio del paese attraverso la riduzione di salari e diritti e dello stato sociale. Una sorta di ritorno agli anni ‘50, ma in un contesto internazionale che, a differenza di allora, molto difficilmente trainerà una ripresa delle esportazioni italiane. Alla ricerca di un accreditamento internazionale e di un ravvedimento operoso di quella che il Pd amabilmente chiama la «famiglia socialista europea», l’agenda Bersani può definirsi come un «togli qui e metti lì». Una modesta agenda di redistribuzione di risorse che vanno scemando a fronte dell’austerità e che assomiglia al raschiare il fondo del barile.

La centralità che l’opposizione all’austerità e la questione europea hanno assunto nelle posizioni espresse dagli esponenti di Cambiare si può rappresenta invece un fatto importante, e su questo Rifondazione è certamente solidale. Al momento, tuttavia, le dichiarazioni economiche di Antonio Ingroia appaiono principalmente riferirsi ai poteri taumaturgici della lotta alla corruzione e alle mafie. Che questa sia una priorità non v’è dubbio, così come quella del riequilibrio dell’imposizione fiscale e della lotta all’evasione. Ma l’idea che il recupero dei capitali mafiosi, o un’efficace lotta alla corruzione portino risorse e investimenti esteri sufficienti alla ripresa è a dir poco ingenua. E comunque è un lavoro di lunga lena.

Manca dunque nei programmi del Pd (e di Sel) e per ora in quello di Ingroia un puntuale riferimento a un quadro di politiche europee volte alla crescita. L’auspicio è che questo lavoro cominci, possibilmente non come sgangherate liste della spesa con proposte più o meno fumose, ma con un convincente sforzo di approfondimento, anche tecnico, che dovrebbe ben andare oltre le elezioni.

Una proposta solo menzioniamo (e risale all’Appello degli economisti del 2006): un impegno della Bce a diminuire i tassi ai livelli pre-crisi – la Bce lo può fare – può essere scambiato con quello a stabilizzare il rapporto debito pubblico/Pil, sì da tranquillizzare Germania e mercati che non si tratta di populismo. Se condotta a livello europeo, tale politica renderebbe possibili politiche fiscali di sostegno della domanda aggregata e la ripresa. Reuters cita un sondaggio che dà la Linke tedesca al 9%, dunque forza e coraggio.

Questo articolo è coautorato da Sergio Cesaratto e Stefania Gabriele

 

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