di Alfonso Gianni

La nascita del governo Monti e le modalità stesse che l'hanno accompagnata hanno rinfocolato le polemiche su due aspetti della vita politica e istituzionale del Paese. Il primo riguarda la cosiddetta sospensione della democrazia, il secondo quello del presunto primato della tecnica rispetto alla politica. È bene prendere in considerazione entrambi gli aspetti in modo distinto ma contemporaneamente perché, come si vedrà, esiste un collegamento molto forte tra loro. Come sempre accade non tutte le polemiche però sono fondate. Cominciamo dall'espropriazione del metodo democratico. In che senso se ne può parlare? La destra lo ha fatto facendo ricorso al seguente argomento: il governo Monti è nato senza una validazione popolare attraverso un voto, quindi la sua esistenza sarebbe illegittima e il suo atto di nascita una violenta forzatura del metodo democratico nella formazione dei governi.

Quasi un mini colpo di Stato. Anche chi, come chi scrive, avrebbe preferito il ricorso alle urne per ragioni squisitamente politiche, non può però non considerare del tutto infondata una simile critica alla luce della nostra Costituzione e della prassi conseguente.
Per quanto la legge elettorale attuale sia pessima e corrisponda al tentativo di stravolgere nella pratica la nostra Costituzione, senza modificarla nella forma, essa resiste e conferma che la nostra è e resta una Repubblica parlamentare. Come tale non esiste alcuna investitura diretta popolare di un governo o di un premier. L'indicazione di quest'ultimo sulle schede elettorali non è sufficiente a determinarne l'elezione diretta dal popolo. I governi si formano in Parlamento. Pertanto la costruzione di maggioranze di governo diverse nel corso della stessa legislatura senza ricorrere alle elezioni anticipate è non solo possibile, ma va ricercata fintanto che non se ne dimostri l'impossibilità reale. Quest'ultimo è un preciso compito del capo dello Stato e non si può certo dire che Napolitano non sia stato solerte - forse fin troppo - nell'agire in questa direzione. Non è quindi a questo livello che va cercato il vulnus della democrazia, ma altrove.
Se focalizziamo la nostra ricerca sull'Europa questo ci appare in tutta evidenza. Con la costruzione della Unione Europea è ormai in atto da tempo e in modi più accelerati con il sopravvenire della crisi economica mondiale, un trasferimento di sovranità dal livello nazionale a quello europeo. Il che è particolarmente evidente per gli Stati meno forti dell'eurozona, ossia tutti tranne la Francia e in particolare la Germania.
Questo trasferimento di sovranità non riguarda soltanto la potestà di stampare moneta, ma interessa ormai gran parte della produzione legislativa. Vi sono alcune materie, come per esempio l'agricoltura, nelle quali la legislazione nazionale incide per meno del 20% sul totale delle norme prodotte. Ma la maggiore novità è intervenuta proprio nell'anno appena trascorso. Con le riunioni del Consiglio europeo di marzo e poi le successive di dicembre, si è sancito un rafforzamento molto evidente del potere degli organi europei in materia di politica economica. Si pensi, per fare un solo ma decisivo esempio, alla possibilità di interferire nella formazione del bilancio dei singoli stati in ragione della necessità di attuare una politica di rientro del debito e di raggiungimento del pareggio di bilancio. Le decisioni assunte nello scorso dicembre prevedono che solo il discostamento dello 0,5% dagli obiettivi di rigore fiscale previsti, può fare scattare sanzioni automatiche nei confronti dei Paesi non virtuosi, a meno che una maggioranza qualificata dei membri della Ue non vi si opponga. Il che lascia prevedere che questo potrà accadere solo a beneficio dei Paesi più forti.
Il pareggio in Costituzione
Non solo, ma Bruxelles raccomanda anche ai singoli stati membri di introdurre nelle rispettive Costituzioni l'obbligo del pareggio di bilancio. Il che è precisamente avvenuto in Spagna e avverrà in Italia.
Dietro l'apparente tecnicismo e la retorica familista della buona gestione dei conti, di cui queste norme si ammantano, si nasconde la privazione di quello che è uno dei principali strumenti di governo entro un sistema democratico, ovvero la possibilità di utilizzare la spesa pubblica - anche in deficit se necessario - per orientare lo sviluppo dell'economia verso obiettivi sociali, quali la piena occupazione, e per rispondere positivamente in termini di miglioramento dello stato sociale ai bisogni dei cittadini. La privazione di quote, anche rilevanti, di sovranità nazionale sarebbe tuttavia comprensibile e ben sopportabile se avvenisse in un contesto di costruzione di un'entità istituzionale sovrannazionale di tipo federale, organizzata e governata secondo principi rigorosamente democratici.
Ma questo è l'esatto contrario della condizione nella quale attualmente si trova la Ue. Infatti il Parlamento europeo, che viene eletto con sistema proporzionale e quindi sembrerebbe offrire le migliori garanzie per fare prevalere la volontà dei cittadini, è in realtà privato di qualunque potere decisionale. È più un'arena di confronto, peraltro oscurata da una informazione del tutto opaca, che un luogo di decisioni. Queste vengono prese da organi non elettivi, quali il Consiglio europeo e la Commissione europea, che vengono designati dai singoli governi nazionali. A loro volta le decisioni economiche sono prese negli ambiti ancora più ristretti di Ecofin, l'organismo che riunisce i ministri economici, e soprattutto della Banca centrale europea che, secondo un principio diventato un mantra della costruzione istituzionale del neoliberismo, è del tutto indipendente dal potere politico, anzi lo sovradetermina. Prova ne sia che anche ottime raccomandazioni - appunto non direttive - assunte dal Parlamento europeo, quale quella che imporrebbe a ogni singolo stato di dotarsi di efficaci misure di contrasto contro la povertà e la disoccupazione, quale il reddito minimo garantito, oppure quella sulla introduzione di una tassazione sulle transazioni finanziarie speculative sulla base di un'aliquota minima dello 0,5% (sul tipo della Tobin Tax) rimangono lettera morta, a meno che non vengano trasformate in direttive vere e proprie attraverso una campagna di firme, ne servono almeno un milione, promossa da cittadini di almeno sette Paesi europei (si tratta del cosiddetto «diritto di iniziativa dei cittadini europei» introdotto con il Trattato di Lisbona). Al contrario le ingiunzioni in merito di rigore fiscale, come abbiamo visto, diventano immediatamente operative e sanzionabili.
Se guardiamo al caso della Grecia, non c'è dubbio che possiamo parlare di una democrazia sospesa, di governi sostituiti per diretta volontà europea, di forme di pronunciamento popolare, quali il referendum annunciato e poi ritirato da Papandreu, impedite dall'esterno, insomma di un commissariamento di fatto di un intero Paese per un periodo tutt'altro che breve e indeterminato. Ed è proprio su questo punto che si introduce il secondo grave vulnus al funzionamento democratico delle istituzioni, dato dalla presunta supremazia della tecnica sulla politica. Anche questo elemento ha trovato riscontri recenti nelle vicende politiche del nostro Paese.
La sostituzione del governo Monti a quello di Berlusconi è stata proclamata in nome del ruolo tecnico che il primo veniva ad assumere proprio in relazione al carattere necessitato dalle scelte da fare in base alle direttive europee. È indubbio che a un tale esito si sia giunti anche grazie al discredito che la politica ha negli ultimi tempi attirato su di sé particolarmente nel nostro Paese, al punto che giustamente si parla di crisi della politica in quanto tale. Fenomeni di corruzione, di malgoverno, di caduta verticale del senso dello Stato e perfino della legalità, impreparazione e incultura sono diventate le caratteristiche di una classe dirigente politica che tende ad avvolgere maggioranza e opposizione in un unico fascio. Il successo del termine, in sé ambiguo e deviante, di "casta" ci dà la misura della penetrazione nel senso comune di un distacco crescente tra cittadini e politica praticata. Quante volte abbiamo sentito dire negli ultimi mesi, significativamente sia dai rappresentanti del governo Berlusconi che da quelli del governo Monti, la fatidica frase a giustificazione di dure misure imposte ai cittadini italiani: «Ce lo chiede l'Europa»!
La maschera del tecnico
In parte questa è una banale giustificazione per scaricare su altri le responsabilità di misure impopolari, ma in grande parte questa affermazione corrisponde a realtà. La famosa lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto e le successive osservazioni del commissario europeo Olli Rhen (finora un "Carneade"!), erano talmente puntuali e perentorie da risultare chiaro che ogni minimo ambito di autonomia decisionale del governo italiano era precluso e il suo cammino veniva tracciato fin nei minimi dettagli. Eppure, a guardare più a fondo le cose, si deve concludere che governi "tecnici" non ci sono mai stati, né lo sono quelli in carica. Per quanto riguarda il caso italiano abbiamo un precedente rilevante: il governo Dini che sostituì il primo Berlusconi nel gennaio del '95. Era un governo composto da ministri non politici, nel senso di non membri del Parlamento, ma che riuscì a fare cose che altri non erano stati in grado, anche se in modo negativo dal mio punto di vista. Mi riferisco ovviamente alla riforma delle pensioni del 1995, che giunse dopo diversi lustri di dibattiti fin lì sterili e i cui effetti hanno tanto contato nelle vicende economiche e sociali del nostro Paese.
Allo stesso modo il governo Monti appare fin dalle sue prime battute assai ambizioso. Non solo perché vuole mettere mano a questioni socialmente assai rilevanti e delicate, come appunto di nuovo le pensioni o l'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, ma anche perché sta provocando un terremoto negli schieramenti politici, portando a una scomposizione sia del centrodestra che del centrosinistra. Ed è difficile immaginare un processo più politico di questo, anche nel senso più circoscritto del termine. Bisogna quindi operare un disvelamento. Non è la pura tecnica che si sostituisce alla pura politica, ma sta prendendo il sopravvento una specifica politica che progetta l'uscita dalla più grande crisi dal '29 ai giorni nostri in termine di rigore e di sacrifici per le classi più umili e che per fare ciò ha bisogno di un grande disciplinamento sociale.
La trappola della governance
Questo tipo particolare di politica è quindi incompatibile con una reale democrazia. Punta invece a sistemi a-democratici, tali da non negare formalmente la democrazia, ma capaci di funzionare senza di essa. In essi i tecnicismi sono indispensabili nella loro doppia funzione, da un lato di mascheramento dei luoghi del potere reale e dall'altro di rendere più efficaci i modi del loro operare. Il problema del governo si stempera quindi e si complessifica nel tema della governance, ossia di un sistema più articolato e interdipendente che rende difficile l'individuazione del punto esatto nel quale avviene la formazione del processo decisionale. La derivazione di questi schemi dalla logica di impresa è evidente anche dal punto di vista terminologico. Le istituzioni della democrazia delegata, della rappresentanza elettiva, quando ci sono, diventano quindi solo uno dei luoghi e non i più importanti di questo più complesso apparentemente misterioso sistema di governance. I due aspetti fin qui trattati danno quindi ragione del processo di sospensione della democrazia che da eccezionale diventa permanente. Lo stato di eccezione - dettato ad esempio dall'esigenza di fronteggiare la crisi - diventa così la regola, la modificazione tendenzialmente permanente e definitiva degli assetti istituzionali. La fine della democrazia. La dichiarazione palese della incompatibilità del moderno capitalismo con la democrazia.
Rovesciare questo processo non è semplice. Tuttavia è il compito che bisogna porsi se non ci si vuole rassegnare alla manipolazione costante delle libertà e delle volontà. Solo che non lo si può fare ritornando allo status quo ante. Non credo che il ritorno agli stati nazionali sia auspicabile. Quanto invece un processo certo difficile ma necessario di democratizzazione delle istituzioni europee e di trasformazione dell'attuale unione economica in una unione politica di tipo federale. Allo stesso modo, la riproposizione del primato della politica non consiste nell'allontanamento della tecnica, ma nella incorporazione delle competenze e delle capacità nei processi decisionali della politica. Come ammoniva Adorno in una bella intervista della fine degli anni sessanta rilasciata a Umberto Eco, la sinistra non deve mai essere al di sotto della tecnica, farsi intimidire o dominare da essa, ma se ne deve impadronire fino in fondo per ridisegnarla ai fini di una trasformazione dei modelli di sviluppo e della qualità della vita sociale.

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