di Bruno Steri

Che un  pool di esperti si adunino al capezzale di un’Europa moribonda, sfibrata dalla “crisi del debito” (figlia naturale della crisi “tout court”) e lacerata al suo interno dal perseguimento di interessi a breve e a lunga scadenza che permangono divergenti, non fa ormai più notizia.

A Bruxelles si susseguono vertici da “ultima spiaggia” che sin qui hanno prodotto risultati assai magri: stavolta il redde rationem è previsto per il prossimo 28 di giugno. In questione, l’impasse del sistema bancario e, in particolare, lo stato fallimentare di quello di alcuni contesti nazionali (greco e spagnolo su tutti). La finanza (che, non dimentichiamolo, nell’ambito dell’Europa capitalistica marcia su gambe private) dovrebbe servire a mettere olio nella macchina produttiva e alimentare le risorse di un’economia reale sfiancata dalla crisi: ma le risorse scarseggiano e le provvidenze creditizie sono bloccate. In tali circostanze, ciascuno tende a pensare per sé. In generale, le banche europee – che pure hanno ricevuto negli ultimi tre anni aiuti per 4 mila e cinquecento miliardi di euro - non se la passano bene: anche quelle tedesche e francesi, a tutt’oggi, risultano gravate da titoli tossici, sbilanciate quanto al rapporto tra debiti e capitale proprio e, per portarsi in linea con la concorrenza planetaria, devono ulteriormente comprimere il livello dei prestiti e situarsi entro un accettabile prospettiva di rischio. Stando alla stampa specializzata, a gennaio di quest’anno i fondi statunitensi avevano già sottratto al sistema bancario europeo il 42% dei loro depositi (Economist).
Ovviamente, in un quadro tutt’altro che roseo, c’è poi chi sta ancor peggio. Vedi il caso delle cajas spagnole, l’analogo delle nostre casse di risparmio, che rappresentano la metà del sistema bancario iberico (la Caixa e la Bankia sono la terza e la quarta banca del Paese) e che ora, con un buco stimato tra gli 80 e i 120 miliardi di euro (maturato con l’implosione della bolla immobiliare), rischiano di mandare a gambe all’aria l’economia nazionale e, con essa, l’appartenenza della Spagna all’Eurozona. Sarà ben difficile per il governo iberico sottrarsi all’abbraccio degli aiuti Ue. E, tuttavia, il premier Rajoy resiste: egli sa che, con il piano “salva-banche” predisposto in sede europea (via Efsf/Esm), arriverebbe anche la fine dell’indipendenza finanziaria e del controllo nazionale sul proprio apparato bancario.
Come si vede, si tratta di un caso emblematico dell’attuale “condizione infelice” in cui versano i Paesi più deboli ed esposti dell’Eurozona: scegliere l’appartenenza al consesso europeo, predisponendosi ad un sostanziale restringimento della propria sovranità. La domanda è: a che prezzo? E in vista di quale progetto europeo? In fondo sono gli stessi interrogativi che in generale pesano sulle scelte dei prossimi due-tre mesi. In particolare, la sinistra è posta davanti alla seguente scommessa: acconsentire – come sarebbe giusto, se si vuole salvare l’Europa – a procedere nella direzione di una più compiuta integrazione, a partire da un più organico raccordo delle politiche fiscali, ma cambiando il segno complessivo della politica economica continentale. Non è certo una virgola. Per chi non lo avesse capito, evitare la “tempesta perfetta” del combinato disposto di strozzatura creditizia più politiche di austerity equivale, nella condizione data, a scegliere bene tra interessi di classe divergenti. Purtroppo, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio va nella direzione peggiore; e la tassazione delle transazioni finanziarie non può bastare a compensare le “lacrime e sangue” che comporterebbe l’applicazione del patto fiscale (“fiscal compact”), già varato ma non ancora approvato in sede nazionale. Siamo davvero a un bivio e la strada si annuncia in salita.   

 

 

 

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