di Leonardo Madio e Claudio Riccio

L’abolizione del valore legale del titolo di studio era stata annunciata con grande enfasi dai bocconiani del governo e dal ministro Profumo.

Nel consiglio dei ministri del 27 gennaio, probabilmente preoccupati che tale provvedimento potesse infiammare di nuovo le piazze italiane, come avvenne in occasione della riforma Gelmini nell’autunno 2010, il governo aveva fatto un passo indietro, con l’obiettivo di farne due avanti. In cosa consisteva il passo indietro? Una consultazione pubblica, dal sito del MIUR, con un questionario che gli studenti e i ricercatori, ma anche molte università hanno da subito considerato come una truffa.
“Siamo convinti che questa consultazione sia una truffa” – aveva dichiarato in una nota LINK coordinamento universitario –  ”alcuni quesiti risultano molto difficili, altri invece sembrano indirizzare le risposte verso un’unica direzione che mira appunto a cancellare il valore legale.” Effettivamente risultava molto difficile anche solo individuare le risposte da contrassegnare per esprimere un parere contrario all’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Il questionario è stato affiancato da un dibattito sui media, in particolare sulla carta stampata, molto favorevole al governo, e il mix tra campagna mediatica e questionario orientato sembravano il preludio ad un plebiscito.
La consultazione è terminata più di un mese fa, il 24 aprile, e da allora non ci sono stati aggiornamenti di alcun tipo. Non una dichiarazione di un membro del governo, non un comunicato ufficiale, solo una velina consegnata al Corsera pochi giorni prima della conclusione del sondaggio, nella quale si anticipava la vittoria imminente del no. Secondo i dati in possesso del Corriere della Sera, pubblicati in un articolo in prima pagina il 22 aprile, infatti, il 70% degli italiani si era espresso contro l’abolizione del valore legale.
Che senso aveva far uscire i dati prima della fine della consultazione? Era forse una “chiamata alle armi” per riuscire a ribaltare il risultato? E soprattutto se il quotidiano di via Solferino aveva i dati, addirittura divisi per regione, due giorni prima della fine della consultazione, perché un mese e mezzo dopo non c’è ancora un dato ufficiale dei partecipanti?
Eppure sul sito del MIUR si legge: “Al termine della consultazione, i contributi ricevuti saranno pubblicati, in forma anonima, sul sito istituzionale del MIUR. Il Ministero elaborerà anche un documento riepilogativo che sarà oggetto di pubblicazione. Il MIUR potrà altresì organizzare uno o più seminari per la discussione del tema trattato anche con riferimento al contesto europeo e al panorama internazionale.”
Si trattava, secondo il Premier Mario Monti di mettere in pratica una forma di consultazione democratica pienamente in linea con gli altri Paesi europei, e poco utilizzata in Italia, organizzando forme di ascolto dei cittadini prima di legiferare, e mentre lo diceva già pregustava di metter mano al valore legale del titolo di studio, come lui stesso insieme a moltissimi docenti della Bocconi e all’intera confindustria italiana chiedono da anni.
In realtà sembra che si sia annunciata una consultazione per poi nascondere l’esito una volta sfavorevole. Se si trattava di importare modelli di consultazione dei cittadini forse Monti ha sbagliato mira, e ha guardato alla Russia.
Come se non bastasse si passa dal furore ideologico dell’abolire il valore del titolo di studio all’estremo opposto, rafforzandone il peso, seppur in una logica puramente competitiva. Nei giorni scorsi, infatti, il Ministro Profumo ha annunciato l’imminente promulgazione di un decreto sul merito che coinvolgerà gli studenti delle scuole di secondo grado e delle Università. Nel testo del decreto, non si accenna in alcun modo a politiche di diritto allo studio, in un contesto di sottofinanziamento dello stesso e di incremento del numero dei potenziali idonei alle borse di studio, ma si interviene con provvedimenti ideologici volti ad inserire lo “spirito competitivo” all’interno dei luoghi della formazione storicamente segnati da percorsi di collaborazione e fiducia reciproca. Fra questi l’iper-valorizzazione degli studenti che si laureano con il massimo dei voti, selezionati in un 5% dei laureati per ogni facoltà, che beneficieranno di sgravi fiscali in caso di assunzione da parte di imprese e pubbliche amministrazioni. O ancoracl’abolizione sostanziale della figura del fuoricorso e l’inserimento di un percorso ad ostacoli che impedisce l’iscrizione agli anni successivi per lo studente che non consegue almeno l’80% dei cfu previsti dal piano di studi, senza tener conto delle condizioni economiche, sociali e personali che portano il singolo studente a non poter sostenere un tal numero di esami.
Resta un impianto complessivo che nell’accentuare la competizione fra gli studenti da continua a non garantire un effettivo accesso alla formazione ignorando le profonde disuguaglianze economiche e sociali presenti nel paese. L’Europa, quella che tutti evocano quotidianamente, “ci chiede” altro: arrivare al 40% di giovani in possesso di una laurea. L’Italia è ferma al 19% e sembra procedere in direzione contraria. Ma se invece di nascondere l’esito delle consultazioni il governo ascoltasse i cittadini il sistema formativo sarebbe in ben altra situazione.

 

 

 

 

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