Rifondazione c'è! Con la Sardegna che non si arrende.  
VIII Congresso Regionale della Sardegna. 16/17  Giugno 2012 - Cagliari
Rifondazione Comunista in Sardegna, vent'anni di storia.
Il partito della Rifondazione Comunista ha compiuto nel 2012 i suoi vent'anni di vita, la sua storia italiana è andata di pari passo con il suo radicamento in Sardegna. Nella nostra regione il partito non ha mai smesso di essere una presenza costante della proposta comunista; in esso sono confluiti percorsi diversi della sinistra comunista e autonomista, dagli ex pci all'esperienza di dp sarda. Negli ultimi anni non sono mancati anche in Sardegna nuovi ostacoli alla nostra proposta, molti sorti all'interno della nostra stessa organizzazione. In primis la scissione del 2009, che oltre ad aver posto fuori dal Consiglio Regionale il partito, ha mortificato il lavoro politico ed elettorale dei compagni che in tutte le federazioni avevano sostenuto con impegno il partito e i suoi candidati. Questa scissione ha lasciato un grande vuoto; possiamo dire di aver in questi ultimi anni provato a colmarlo non ottenendo sempre il risultato sperato. Nonostante questo, Rifondazione c'è! Per questo l’VIII congresso è per noi un momento fondamentale di rivalsa e di rilancio.   
La crisi economica e politica.  
Dal 2008 l'intero panorama dell'economica capitalista occidentale è sconvolto da una delle più grandi crisi economiche della sua storia, come comunisti abbiamo denunciato sin dai primi mesi la natura organica e sistemica di ciò che stava avvenendo. Nelle nostre analisi abbiamo sempre messo in luce il legame profondo che intercorre fra la crisi finanziaria e le politiche neo-liberiste attuate negli ultimi trent'anni in tutti settori dell'economia dall'UE e dagli Stati Uniti d'America. Un mercato libero da ogni controllo, accompagnato dalla finanziarizzazione dell'economia, ha creato nei più grandi stati, a partire dagli Stati Uniti, un forte indebitamento privato che ha coinvolto singoli cittadini e grandi gruppi bancari; per tutta risposta, la politica, nel tentativo di salvare gli istituti bancari, ha disposto per loro la maggior parte delle risorse disponibili, rendendo il debito privato cosa pubblica. Sino ad oggi in tutta Europa questo ha comportato una escalation di misure atte a ripristinare la parità di bilancio attraverso il rigore economico e l'aumento della pressione fiscale. Sarebbe però sbagliato separare questa fotografia della crisi dall'attacco che negli ultimi decenni ha subito il mondo del lavoro con l'introduzione di forme sempre più strutturali di precarizzazione, l'aumento della disoccupazione, la spoliazione dei redditi da lavoro dipendente. In questa lotta di classe fra un ceto sempre più ristretto di ricchi e una proletarizzazione diffusa, i subalterni e coloro che li rappresentano escono sconfitti. Noi crediamo che da questa constatazione sia necessario ripartire.   In questo quadro internazionale di economia ormai globalizzata, le scelte compiute dai poteri centrali non possono non avere conseguenze dirette nel locale, così la Sardegna, come il resto del sud d'Europa, subisce le conseguenze più cruente di una stagnazione al momento irreversibile. La nostra Isola non ha iniziato certamente negli ultimi quattro anni a perdere la sua capacità produttiva e di sviluppo, il processo di indebolimento ha le sue radici in scelte politiche quasi storiche che sarebbe opportuno tenere a mente per evitare facili deduzioni ed errate soluzioni. Non da oggi infatti il settore economico che offre maggiori posti di lavoro è quello terziario; esso si è sviluppato enormemente (basti pensare all'enorme quantità di catene commerciali che negli ultimi anni si sono insediate in Sardegna) senza che si costruissero accanto o si consolidassero i veri settori portanti  

dell'economia: l'agropastorale e l'industria. Tali comparti sono stati lasciati, nel corso degli ultimi decenni, all'abbandono e all'assistenzialismo, non è un caso che siano stati i primi ad entrare in crisi di fronte allo tsunami abbattutosi nell'intera  economica. Oggi è il Sulcis la provincia più povera d'Italia e non è di molto diversa la situazione delle altre province sarde. I tassi di disoccupazione superano il 40% quando si tratta dei giovani sotto i trent'anni e l'unica occupazione prodotta negli ultimi anni è affidata a contratti precari o a false partite iva. A questi dati si aggiunga l'aumento costante della cassaintegrazione, lo smantellamento di settori strategici come l'alluminio e la chimica, la depressione del settore turistico, l'emigrazione di centinaia di giovani sardi verso altri paesi e il progressivo spopolamento delle zone interne. A tale stato di cose fa il paio la situazione politica italiana e isolana, investita da una crisi di portata maggiore per le conseguenze che può causare sul futuro del paese. L'uscita dal berlusconismo come maggioranza di governo non ha segnato la fine della classe dirigente politica ed economica che ha condotto l'intero paese a queste condizioni materiali e culturali. In particolare la Sardegna resta ancorata ad un governo regionale di centro destra il cui unico aggettivo totalmente definitorio è quello della subalternità al governo centrale e ai clientelismi autoctoni di ogni specie. Il referendum tenutosi poco più di un mese fa, se da un lato ha origine nella demagogia di chi lo ha promosso, dall'altra nei suoi risultati anche parziali, ci consegna un panorama di totale sfiducia verso la politica della rappresentanza e verso la stessa democrazia. Sarebbe sbagliato non mettere in relazione questo risultato con la situazione materiale sempre più precaria e di povertà che vivono i lavoratori sardi; essa comporta uno stato di totale sfiducia verso la possibilità stessa di un cambiamento proveniente dalla politica e dalla partecipazione. Si deve inoltre rilevare, come la risposta alla montante insofferenza verso il ceto politico, non si  traduca in una proposta di partecipazione attiva dei cittadini, quanto in un abbandono del diritto di scelta (aumento dell'astensione) o nell'abdicazione passiva verso un possibile leader (consolidamento dei partiti personali).  I due livelli di crisi, economica e politica, vanno dunque tenuti insieme. Karl Marx nella sua critica alla società liberale ha svelato la scissione dell'uomo all'interno del sistema capitalista, uguale nella condizione politica, diseguale nella condizione materiale. L'uomo vive la condizione del cristiano che aspira tutta la vita ad una condizione di beatitudine che vivrà solo nel regno dei cieli, dopo la morte. Tale scissione era frutto di un rovesciamento che mistificava la realtà e che Marx auspicava venisse superato da un atto politico rivoluzionario. Oggi possiamo rilevare come, nonostante stia venendo meno in maniera palese anche la convinzione liberale di una presunta uguaglianza politica, questa constatazione non comporti una consapevolezza in grado di rovesciare lo stato di cose. Alla constatazione di una libertà politica sempre più ristretta non corrisponde un ragionamento che connetta la fine delle libertà democratiche come l'apice di un dominio lungo quanto la storia del capitalismo, una forma nuova di controllo e diseguaglianza, non più solo economica, ma anche politica. Prendendo a prestito un'importante riflessione gramsciana possiamo definire tale stato di cose come quello in cui il vecchio viene meno, ma il nuovo stenta a nascere. Una condizione di stallo, di vero deserto politico, a cui i comunisti devono porre fine.    
Questione sarda: la nostra isola nella crisi del capitale.  All'interno della crisi la Sardegna non manca di mostrare alcune specificità anche nelle risposte messe in campo dalla politica ufficiale e da quella di base. Da un lato l'esperienza del movimento dei pastori sardi e delle partite iva, dall'altra le lotte estreme degli operai. Entrambi nascono dal basso e da una forte spinta alla sopravvivenza sociale, ma è bene sottolineare come dietro al movimento dei pastori sardi e delle partite iva non ci sia una vera analisi globale, quanto una lotta di categoria. Una visione minoritaria e pericolosa perché in essa s'insidia il germe dell'antipolitica e del qualunquismo.  

Diversa è l'esperienza dei cassaintegrati sardi, essi si richiamano ad una storia di lotte che li pone in un contesto diverso, in grado di interloquire con la politica e metterne a nudo le deficienze. Nelle parole degli operai del nord Sardegna “prigionieri” consapevoli dell'isola dell'Asinara non si rintraccia rassegnazione o legittima rivendicazione, al contrario un invito alla lotta comune, all'impegno delle istituzioni e dei partiti per un cambio di rotta. La Sardegna, dunque, è stata in questi ultimi anni entrambe le cose, da un lato teatro, come il resto di Italia, di grandi rivendicazioni sindacali e dall'altra, quasi unica nella forma di ribellismo assunta dal movimento dei pastori sardi. A tutto questo la politica ha risposto quasi unanimemente, anche se con forti differenze, con una proposta politica che riprende il tema dell'indipendentismo, dell'autonomia e della sovranità della Sardegna. Ci sembra dunque opportuno spendere alcune parole su questo tema.    Tale proposta, come si diceva, non è univoca né è totalmente riconducibile al solo indipendentismo, essa si sviluppa in forme diverse, soprattutto negli ultimi anni si sono arricchite di termini e proposte nuove come quella del sovranismo.  Quasi tutti si richiamano ad una questione sarda, ma anche su questo punto le riflessioni possono essere molto diverse. Il Partito della Rifondazione Comunista riconosce l'esistenza di una questione sarda, a 150 anni dall'Unità d'Italia restano, infatti, invariate le ragioni della specificità di tale questione anche rispetto alla questione meridionale. Essa nasce dalla secolare storia di oppressione del popolo sardo nel corso delle diverse dominazioni e dalla marginalizzazione dei movimenti culturali e politici della Sardegna – da parte della letteratura storica e scientifica italiana – dalla sottovalutazione sistemica, sul piano politico, del diritto all'autodeterminazione culturale e politica. Tale oppressione ha trovato nei molteplici frangenti storici il fattivo sostegno delle stesse classi dirigenti sarde. L’isola per secoli è stata dominata da una nobiltà decadente e da una borghesia fondiaria assenteista, specializzata nella rendita parassitaria, incapace di accumulare e reinvestire produttivamente un proprio capitale originario; una borghesia cicala,  come la vecchia aristocrazia terriera, avvezza a spendere tutta la sua rendita. A questa base passiva della borghesia autoctona si è aggiunta come una escrescenza lo sfruttamento coloniale di quella sabaudo-piemontese e italiana, limitatasi a depredare l’isola delle sue risorse. Ciò è avvenuto storicamente per le risorse minerarie, forestali, agro pastorali, industriali e, più recentemente, con la devastazione ambientale per esigenze militari e di sfruttamento turistico del territorio. Riteniamo però altresì necessario rilevare come a partire dalla constatazione di una specificità sarda possano nascere  e siano presenti nel panorama politico isolano proposte interclassiste che fanno della categoria del popolo sardo una categoria dello Spirito, utile ad intercettare dei presunti tratti naturali di tutti i sardi: onestà, ospitalità e coraggio. Un pericoloso etnocentrismo che per alcuni versi è il segnale di un arretramento culturale, per altri è un duttile strumento nelle mani del ceto politico per il mantenimento del controllo politico ed economico libero da vincoli centrali.  Questa opzione accomuna diverse forze politiche, dobbiamo dunque come prima cosa sgombrare il campo da questo tipo d'interpretazione se vogliamo fare del popolo sardo il soggetto del riscatto e della rispesa economica. Il partito della Rifondazione Comunista deve per questa ragione riprendere in mano un'eredità troppo spesso dimenticata che ha origine negli scritti gramsciani sulla questione meridionale e il suo protagonista politico in Renzo Laconi. Per Laconi e per il PCI sardo la rivendicazione autonomista non doveva essere lo strumento per la costruzione dell'isolamento, né per la riproposizione di vecchi rapporti di produzione, premoderni e preindustriali nei quali si era più felici perché nella memoria collettiva apparivano meno diseguali e meno poveri. L'autonomismo e il sardismo era e doveva essere la forma che le classi subalterne sarde  

sceglievano per costruire la propria emancipazione rispetto al dominio coloniale, rispetto a qualunque dominio capitalistico interno ed esterno. In questo direzione venne costruita l'assemblea del popolo sardo, composta dai braccianti agricoli del Logudoro, dai minatori del Sulcis, dagli allevatori delle Barbagie. In quella proposta politica socialismo e sardismo si tenevano insieme, non era possibile confondere i termini, dare spazio alle ambiguità. L’emancipazione degli sfruttati sardi era legata a doppio filo con quella del resto delle classi subalterne italiane e internazionali.  Non si tratta dunque di trovare oggi nuove parole o di ridefinirle attraverso sfumature e neologismi diversi per distinguere e distinguerci in ciò che non intendiamo per liberazione del popolo sardo, per noi la storia deve essere un punto di riferimento da cui far scaturire un'azione politica che ponga il tema dell’autogoverno del popolo sardo in rapporto ad un profondo programma di rinnovamento economico, politico e istituzionale. Su questi temi il Partito deve giocare un ruolo propulsivo e da protagonista per coniugare le esigenze di autogoverno e sovranità con quelle di una profonda riforma intellettuale e morale che sia economica e sociale.  
Un soggetto sardo della sinistra anticapitalista.  Alla luce di questo deve essere posta nell'agenda politica del nostro Partito un doppio percorso che coinvolga l'organizzazione e la proposta, la forma e il contenuto.  I dati elettorali delle ultime amministrative ci rimandano un quadro della sinistra desolante, questa consapevolezza merita da parte nostra una presa d'atto della debolezza delle singole proposte, siano esse fortemente identitarie, siano esse più neutrali e meno aggettivate. In entrambi i casi la sinistra divisa esce ridimensionata e poco appetibile. Tale risultato deve spronarci ad un maggior coraggio. Il partito della Rifondazione Comunista è da alcuni anni impegnato a livello nazionale a costruire un processo federativo di unità della sinistra anticapitalista e comunista, tale processo di ricomposizione della sinistra e delle forze comuniste rischia oggi di naufragare nonostante la fase richiederebbe una sinistra unita. Per questa ragione, riteniamo che tale progetto di aggregazione debba trovare in Sardegna un respiro nuovo che dia vita ad un laboratorio politico nel quale ognuno di noi sia in grado di andare oltre se stesso e la propria organizzazione. Diventa essenziale costruire un soggetto politico che non sia la sommatoria dei gruppi dirigenti, ma che parli alla società sarda. Un soggetto che non abbandoni la sua analisi anticapitalista e la sua proposta comunista e socialista, essendo in grado di coniugarla con la specificità della Sardegna in attuazione con l'esigenza di sovranità dei subalterni sardi. Tale soggetto per essere maggioritario, per aspirare a rappresentare i lavoratori sardi deve imprimere una sterzata alla modalità sin ad ora adottata per relazionarsi con le forze che riteniamo nostre strette alleate. Dunque è essenziale che la nostra organizzazione abbatta il recinto e vada oltre, offrendosi come soggetto promotore e primo sostenitore di un soggetto politico plurale della sinistra sarda nel quale la nostra storia non sia un ostacolo, ma una proposta politica capace di conciliarsi con l'esigenza di costruire una risposta alla questione sarda e che rimetta al centro lavoratori, cassaintegrati, pensionati e giovani sardi. Questa proposta la rivolgiamo alle compagne e ai compagni dei Comunisti Italiani, dei Rossomori, di Sinistra Ecologia e Libertà e all'arcipelago di compagni e compagne disperse sia nelle organizzazioni indipendentiste, sia nei vari movimenti che in questi ultimi anni hanno animato il dibattito politico sardo: dai Forum per l'acqua bene comune, alle battaglie per la liberazione del territorio da qualunque forma di occupazione militare, passando per le lotte sindacali in difesa del lavoro. Tale progetto avrà tanta forza aggregante quanto più sarà in grado di trovare le parole d'ordine che parlino alle reale condizioni dei sardi. Per questo pensiamo ad un programma politico che metta al  

centro il lavoro e la conoscenza, perchè in questo binomio si realizza la natura poliedrica e sociale dell'uomo nuovo.  
Come prima cosa il lavoro.  Come prima cosa il lavoro. Il tracollo economico e finanziario iniziato nel 2008 ha avuto in Sardegna gravi ricadute sull'occupazione, la Sardegna è ai primi posti in Italia per perdita occupazionale ed assiste con ammortizzatori sociali in deroga oltre 13 mila lavoratori. A questo dato non corrisponde una politica attiva del lavoro. In questi tre anni di governo del centro destra, in materia di interventi di politiche del lavoro la Regione Sardegna si è caratterizzata per l’incapacità di fornire risposte adeguate e tempestive rispetto alle esigenze manifestate. Gli interventi sono stati non solo inadeguati, ma gestiti con enorme ritardo. Le criticità più rilevanti si ritrovano nella totale incapacità di programmazione e di gestione degli interventi, nella mancanza di strategia e di azioni di sistema. La programmazione e la gestione delle politiche per il lavoro sono state caratterizzate da interventi emergenziali e tardivi rispetto alle necessità, come le politiche per i beneficiari di ammortizzatori sociali, che si sostanziano in prevalenza in interventi di politiche passive e da una mancato raccordo con quelle attive.
La Regione Sardegna ha attuato e continua ad attuare gli interventi di Politiche del Lavoro  accentrandone su di sè la programmazione e la gestione. Il mancato coinvolgimento dei territori e degli attori nella definizione degli interventi ha determinato una sovrapposizione di ruoli e di competenze tra istituzioni, generando una forte discriminazione di trattamento tra le/i cittadine/i, in particolare una maggiore penalizzazione degli utenti più svantaggiati, che non possiedono gli strumenti per attivarsi in autonomia
Inoltre, la Regione si è dimostrata incapace nella programmazione e nella gestione dei fondi comunitari. In merito alla programmazione 2007-2013, e cioè ad appena un anno dalla conclusione del programma europeo, pochissimo è stato speso. Ogni intervento programmato prevede tempi di realizzazione lunghissimi per arrivare alla fase di avvio: ad oggi si è lontani dalla metà della spesa dei fondi previsti, con il rischio che la Regione debba restituire parte dei fondi all’Unione Europea. Per noi le politiche per il lavoro devono essere riconducibili, in questa fase di crisi, alla centralità di un sistema dei servizi pubblici e gratuiti che garantiscano alle cittadine e ai cittadini del territorio regionale parità di trattamento, condizioni di accesso ai servizi e alle opportunità di lavoro come premessa per favorire il massimo sviluppo della condizione umana e sociale. Soltanto garantendo l’accesso alle informazioni e ai percorsi che permettono alle persone di potersi dotare degli strumenti necessari per attivarsi nel mercato del lavoro si permetterà un inserimento e/o reinserimento equo ed egualitario con il riconoscimento dei meriti di ogni individuo. Questa politica è in contrasto con quanto si sta delineando a livello nazionale in cui si paventa lo smantellamento delle strutture pubbliche a tutto vantaggio di quelle private, nonché dall’adozione di politiche e di orientamenti che sviliscono il principio del lavoro come un diritto costituzionalmente tutelato, considerandolo invece come un privilegio rispondente a logiche clientelari. Tale pericolo emerge anche da alcuni documenti elaborati dalla maggioranza regionale.  Si rende necessario sostenere e potenziare i servizi pubblici per il lavoro che vedono il coinvolgimento delle persone, delle imprese, dell’associazionismo e dei diversi soggetti che a vario titolo operano nei territori. L’obiettivo è quello di garantire l’erogazione di servizi attenti alle esigenze delle persone e del tessuto locale, in un’ottica di rete e di sistema. Tra le linee programmatiche proponiamo la progettazione e sviluppo della rete dei servizi per il lavoro, un lavoro di rete che porti alla programmazione di un piano di politiche attive partendo  da incontri con le parti sociali, azioni e attività svolte con i Comuni e gli altri attori operanti in loco favorendo la  

massima veicolazione delle informazioni che portino ad un’ampia partecipazione delle imprese operanti, come peraltro è stata l’esperienza realizzata dalle Province; programmazione di un piano di politiche formative anche qui in coerenza con le esigenze del territorio e la necessità di un miglioramento delle conoscenze e delle competenze locali che siano in grado di accrescere il livello di competitività economica e produttiva. Infine la programmazione di politiche per il lavoro deve essere svolta in stretta connessione con la programmazione di politiche economiche di sviluppo e di crescita. La programmazione economica e gli interventi in settori strategici quali i servizi alla persona, la tutela ambientale e le nuove tecnologie possono essere vincenti se tali politiche sono tra loro integrate.  
Uno sviluppo sostenibile: scuola, università e ricerca.
In quest'ottica di rilancio è per noi essenziale che la sinistra sarda metta al centro della sua proposta politica l'aumento di investimenti su scuola, università e ricerca.
Negli ultimi tre anni, i tagli della ministra Gelmini, hanno falciato il sistema scolastico isolano. I piani di dimensionamento hanno comportato una sensibile riduzione delle autonomie scolastiche, specialmente nei territori a minore densità abitativa, e hanno causato un costante aumento di precari e nuovi disoccupati del personale docente e non docente. In un triennio sono stati cancellati quasi 4500 posti di lavoro, in una regione che registrava già livelli di disoccupazione record. Il dimensionamento scolastico ha favorito l'ulteriore spopolamento delle zone interne, nelle quali a fronte di un aumento della disoccupazione non ha corrisposto nessun sostegno sociale per un possibile rilancio futuro e ha scaricato su comuni e famiglie i costi per garantire ai giovani sardi il diritto allo studio. Inoltre la mannaia che si è abbattuta sulla scuola sarda ha reso ancora più debole la proposta formativa aumentando così il divario già ampio tra l'Isola e il continente. Il totem della meritocrazia danneggerà ulteriormente la scuola sarda dal momento che i finanziamenti saranno distribuiti in base al merito che nel nostro Paese viene quantificato in base ai test Invalsi. Questi test, somministrati su scala nazionale, non tengono conto dei livelli di partenza e dei progressi ottenuti dagli alunni, ma vanno a sondare conoscenze standard senza rilevare progressi, competenze, capacità di rielaborazione critica dei ragazzi. Proprio nei risultati dei test Invalsi la Sardegna è fanalino di coda insieme alla Sicilia. Se il sostegno economico alle scuole sarà stabilito in base ai risultati dell’Invalsi è chiaro che la nostra scuola sarà ulteriormente penalizzata e discriminata. Anche in questo settore la Regione Sardegna si è relazionata al governo centrale con totale sudditanza, non tutelando i lavoratori della conoscenza, né i vari istituti presenti nel vasto territorio sardo. L'aumento costante della dispersione scolastica e l’aumento dell’analfabetismo è la risposta più immediata alle politiche dei tagli. Per noi è essenziale che l'uscita dalla crisi passi per la definizione di una scuola democratica, su cui investire a partire dalla analisi del nostro territorio.
Il rispetto della cultura, della storia e della lingua sarda devono essere per noi strumenti didattici che non rievocano un passato, ma sono strumento di connessione con il fare dello studente sardo, con la sua visione del mondo, che si apre alla globalità, ma nasce e si sviluppa in un determinato contesto. La scuola di Lorenzo Milani era la scuola che partiva dalle conoscenze pregresse dell’alunno, una scuola che parlava a coloro che non appartenevano alle classi borghesi e dominanti, ma che attraverso l’istruzione avrebbero conquistato gli strumenti per non essere più subalterni e sottomessi. Benché siano trascorsi 40 anni dalla morte di Don Milani riteniamo che la scuola di oggi, specialmente dopo le riforme targate Moratti e Gelmini, non abbia recepito le istanze di democrazia e partecipazione civile e che ancora non riesca ad eliminare le diseguaglianze sociali ma anzi sia compartecipe nella riproposizione di tali diseguaglianze. Noi invece crediamo che lo scopo della scuola non sia solo
quello di preparare al mercato del lavoro o di attrezzare gli individui per fare carriera ed essere competitivi, ma sia soprattutto quello di formare cittadini sovrani.   

 L'Università in Sardegna assume un ruolo strategico nella formazione dei giovani Anche in questo settore gli ultimi provvedimenti nazionali hanno avuto ricadute pesantissime in quanto la  traduzione delle politiche ministeriali a livello locale è riuscita ad essere peggiorativa. La riforma dell'Università del ministro Gelmini accompagnata dai tagli successivi della legge 133 ha stravolto l'università imprimendole un profilo manageriale e aziendalistico. L'iter di riscrittura dello Statuto che avrebbe dovuto essere un percorso partecipato e in connessione con la società civile sarda è stato poco più di un emanazione del magnifico Rettore.  Ciò che viene fuori è un'offerta formativa notevolmente ridimensionata: dipartimenti  e facoltà sono dimezzati, gli organismi universitari esautorati della loro funzione e rappresentatività, con la sola eccezione del CDA che detiene la maggior parte dei poteri di gestione e decisione ed è a totale  nomina del Rettore. Il dato più preoccupante riguarda l'idea di Università che si sta realizzando, in totale uniformità con le imposizione del governi nazionali si favorisce un'università subordinata agli interessi economici  che in un'isola come la nostra si traducono in interessi di ceto economico in buona parte fannullone e poco innovativo. Non c'è in questa riforma e nella sua applicazione un intento di rinnovamento e riqualificazione di un luogo della conoscenza così importante per la ripresa strutturale dell'economia isolana. Si perpetua l'ennesima riforma senza risorse, il cui unico obiettivo sarà quello di indebolire ulteriormente l'Università pubblica. A salvare il bilancio dell'università di Cagliari e Sassari in questi anni di austerità sono stati i fondi europei e quelli regionali e sebbene le tasse studentesche non siano state ancora di fatto aumentate, le rivisitazioni effettuate al regolamento in questi anni vanno ad aggravare situazioni di fatto già gravi come quella dei fuoricorso. Sui fondi regionali è inoltre necessario sottolineare come le borse di ricerca promosse negli ultimi anni invece di avere a capo un progetto di indirizzo in settori strategici e qualificanti per la ricostituzione di un tessuto economico specifico della Sardegna, si sono profilati come pioggia assistenziale che ha mantenuto per ulteriore tempo i giovani sardi lontano dal mondo del lavoro e nell'impossibilità di confrontarsi con la realizzazione delle proprie capacità. Crediamo che nell'obiettivo di uscire dalla crisi economica sia necessario inserire per la Sardegna non solo la difesa dei posti di lavoro esistenti, dei settori produttivi storicamente validi, ma anche l'investimento costante in ambiti di ricerca che sappiano far scaturire da questi settori, agropastorale, nuove tecnologie, energie alternative, idee e progetti autonomi e specifici. Per arrivare ad un tasso di specializzazione così elevata ogni risorsa dovrebbe essere posta al servizio della formazione e della ricerca, alla cura del rientro dei cervelli in fuga, alla cura nell'erogazione dei servizi per il diritto allo studio, che sono la base per la formazione dei nuovi ricercatori.  In conclusione, per noi, il rilancio della Sardegna deve passare per un coinvolgimento reale delle classi subalterne, tale rilancio deve sovvertire i rapporti di dominazione esistenti, siano essi coloniali o padronali, per fare questo serve un soggetto politico forte e credibile, che aspiri a governare la Sardegna in rappresentanza delle istanze che vengono dal basso e non per delega passiva delle stesse.
Tale soggetto deve porre al centro il lavoro e la conoscenza, deve cioè riprendere in mano i luoghi di una lotta materiale e teorica, l'unica in grado storicamente di ridare voce e protagonismo al popolo.     
Laura Stochino segretaria regionale PRC-FdS

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