di Gianluigi Pegolo
Il risultato dei referendum non si presta ad interpretazioni di comodo. Il fatto che, in assenza di un’informazione adeguata e alla presenza di manovre truffaldine del governo per depistare l’attenzione dei cittadini, si rechi a votare il 57% dei votanti e di questi ben il 95% voti “si”, dimostra quanto sia stato reale il consenso dato ai quattro quesiti. Peraltro, già il referendum consultivo sul nucleare di qualche settimana fa tenutosi in Sardegna aveva dato risultati simili.
Che il risultato segni un’altra pesante sconfitta del governo è evidente. In primo luogo, perché lo stesso governo aveva puntato esplicitamente sul non raggiungimento del quorum e, in secondo luogo, per il merito dei quesiti. Non solo il “legittimo impedimento” costituiva l’ennesimo provvedimento pro Berlusconi che ora viene spazzato via, ma anche il pronunciamento contro il nucleare costituisce una risposta chiarissima al governo che aveva deciso, facendo strame della precedente consultazione referendaria, di reintrodurlo nel paese.
Sulla questione dell’acqua a essere sconfitta non è solo la politica del governo Berlusconi, ma tutta la politica degli ultimi anni in tema di servizi pubblici. Il governo Berlusconi con il decreto Ronchi ha peggiorato una normativa già pessima, le cui responsabilità si allargano al centro sinistra e segnatamente al PD. Il gruppo dirigente del PD ha avuto l’intelligenza di non contrastare esplicitamente il referendum quando sono state raccolte le firme e di appoggiarlo poi, ma non vi è dubbio che quel partito è stato antesignano della politica delle privatizzazioni e ancora oggi i suoi amministrazioni la praticano.
Per questo, occorre trarre un’indicazione precisa da questo risultato. Vi è stata certamente una delegittimazione ulteriore del governo Berlusconi, ma vi è stata anche una delegittimazione del liberismo, e cioè di un approccio alla gestione dei beni pubblici e più in generale alla gestione della politica economica che ha sposato i dogmi del pensiero unico: dal ruolo salvifico del mercato, alla supremazia del privato, al contenimento della spesa pubblica.
In particolare, sul tema dell’acqua bene comune si è mobilitata una rete di comitati, associazioni, partiti che hanno raccolto un’istanza etica fortemente segnata anche da una cultura della solidarietà (di qui il grande appoggio dato dal mondo cattolico), ma anche il bisogno di riappropriarsi di diritti negati da un processo di mercificazione, che nella crisi ha dimostrato, come non mai, il suo fallimento.
Lo straordinario risultato consegna in primis alle forze della sinistra un compito, quello di non vanificare il pronunciamento popolare e, soprattutto, di trarne le debite conseguenze. Su nucleare e legittimo impedimento le scelte sono ovvie. Meno ovvie quelle sui beni comuni. I due quesiti intervengono, peraltro, sul tema dei servizi a rilevanza economica e cioè di servizi a rete che comprendono non solo l’acqua, ma anche i rifiuti e i trasporti. Dal referendum viene l’indicazione, quindi, non solo di eliminare alcune norme del decreto Ronchi, ma anche di avviare un percorso di ripubblicizzazione dell’acqua, e anche degli altri servizi.
Non si tratta di una battaglia facile. Non lo è per la profonda deriva politica e culturale che ha subito la stessa sinistra moderata che si è tradotta in una accettazione acritica del privato e per i vincoli finanziari sempre più stretti che gravano sulle amministrazioni locali e che le spingono alle privatizzazioni. Il referendum con il suo esito apre una nuova stagione, ma sta alla sinistra saperla cogliere, specie a livello locale.
Vi è, tuttavia, un’esigenza più ampia che emerge dal voto ed è quella che, a partire dal tema dei beni comuni e dal rifiuto del neo liberismo, sollecita un percorso di uscita dalla crisi fondato sul ribaltamento del paradigma oggi dominante attraverso: la salvaguardia reale dei diritti, la redistribuzione del reddito, il sostegno della spesa pubblica , la riconversione ecologica dell’economia.
Il referendum ora e le elezioni amministrative prima hanno riproposto il tema dell’”alternativa”, ma non semplicemente in termini di schieramento necessario per battere Berlusconi, l’alternativa che viene evocata è, in primo luogo, un’alternativa di contenuti. Quanti hanno votato prima, nelle amministrative, a sinistra e oggi hanno votato sì ai referendum, non necessariamente identificano il centro sinistra e la sinistra con l’alternativa che vorrebbero. Certo sono disgustati da Berlusconi, ma non amano neppure la deriva dei governi locali di centro sinistra quando hanno dato vita a sistemi di potere e si sono allontanati dalle aspirazioni dei cittadini; votano contro Berlusconi nei referendum, ma non amano chi vorrebbe convincerli (dopo l’esito del referendum) che esistono privatizzazioni più accettabili dei servizi pubblici locali.
Queste masse scontente dal neo liberismo portano in campo anche un’altra istanza: una domanda di partecipazione. Non è una domanda ancora matura, tanto è vero che nel voto amministrativo questa si traduce in delega, seppure a sindaci “innovatori”, ma il voto referendario ci dice di una disponibilità a farsi sentire, a uscire dalla passività. Una sinistra di alternativa deve dare risposta a queste istanze e deve farlo a partire dal basso mettendo in primo piano i contenuti, con quella nettezza e irriducibilità che, sole, possono risultare convincenti. “Beni comuni” e “partecipazione” sono le parole d’ordine di una nuova stagione politica. Per costruire l’alternativa, per dare un ruolo da protagonista alla sinistra.