di Alfonso Gianni
Quello che stupisce nella dichiarazione rilasciata dal presidente del Consiglio Monti contro le esternazioni di Giorgio Squinzi, leader di Confindustria, non è tanto il tono e l’aggressività, francamente insoliti per il tradizionale aplombdel personaggio, quanto le motivazioni addotte.
La reazione di Monti non è stata estemporanea né precipitosa. E’ stata accuratamente preparata assieme al suo staff, il che dunque costituisce un’aggravante. Infatti Monti e i suoi devono averci pensato bene e per tempo. Proprio per questo le sue dichiarazioni acquistano di peso e gravità.
Eppure dovrebbe essere perfino indicibile lanciare l’accusa a chi ti critica, chiunque esso sia, di favorire l’aumento dello spread e dei “tassi a carico non solo del debito ma anche delle imprese”. Sembra di tornare ai tempi di guerra, quando imperava il “taci, il nemico ti ascolta”. L’accusa è infatti quella di intelligenza con il nemico, visto che la situazione economica è stata paragonata da più parti, da ultimo proprio dal Presidente della Confindustria, ad una condizione di guerra. Le metafore belliche a questo punto si sprecano, e l’editoriale del Corrierone, firmato dal vicedirettore Dario Di Vico, parla di “inatteso fuoco amico”.
Vi è allora da domandarsi quali siano le ragioni di tanta virulenza e di tale disprezzo per le più elementari norme della democrazia, quale è l’esercizio del diritto di critica nei confronti dell’operato del governo, soprattutto da parte di chi è rappresentativo di una parte sociale.
Alcune stanno sicuramente nella necessità di fare quadrato a tutti costi attorno a un provvedimento – la spending review – che diverse perplessità, per non dire peggio, ha sollevato nella ampia maggioranza che sostiene il governo e persino all’interno della compagine ministeriale. Le dichiarazioni del Ministro dei rapporti con Il Parlamento Giarda, relative al fatto che in fondo si trattava di tagli lineari in perfetta coerenza con i noti metodi tremontiani, non potevano passare inosservate.
In realtà non siamo di fronte a un semplice provvedimento di revisione della spesa corrente, ma a una nuova vera e propria manovra economica. Esattamente quello che fin qui il governo in carica aveva smentito di volere fare, il che può spiegare in parte il nervosismo montiano.
Le cifre infatti parlano chiaro: la manovra correttiva varata sotto la falsa specie della spending review vale ben 4,5 mld di euro per il 2012; 10,5 mld di euro per il 2013; 11mld di euro per il 2014. Nello stesso tempo l’attuale decreto che ha cominciato il suo percorso al Senato non esclude ulteriori interventi di revisione della spesa legati alle agevolazioni fiscali per 20 mld di euro, mentre l’aumento delle aliquote Iva è tutt’altro che scongiurato, ma solo rinviato nel tempo. A fronte di previsioni di ulteriore calo del Pil sia per l’anno in corso, si parla di un meno 2,7%, che per il 2013, da cui in molti si attendevano ben altre performance, non si capisce davvero cosa ci sarebbe da gioire persino per gli stessi industriali.
La famigerata lettera della Bce inviata il 5 agosto dell’anno scorso all’allora in carica governo Berlusconi, conteneva al punto 2 il seguente pressante invito che conviene riportare per intero, casomai qualcuno se lo fosse scordato: “Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi”. Basta leggere il decreto montiano per capire che di altro non si tratta se non dell’implementazione di quanto dettato dalla Bce a Berlusconi che quest’ultimo non fu in grado di attuare.
Ma le ragioni di un simile attacco alla semplice libertà d’opinione ha anche altre ragioni. Una più contingente, l’altra assai più di fondo e molto più inquietante.
Tra queste ultime, la prima riguarda la pacificazione mancata tra le varie parti in contesa per la successione della Marcegaglia i vertici della Confindustria. Come si ricorderà Squinzi non passò sull’onda di una valanga di voti. Né tra i perdenti vi è mai stato un rompete le righe. D’altro canto la sua relazione d’esordio all’Assemblea annuale della Confindustria è stata una delle più fiacche che si ricordino. Il che deve avere incrementato non poco gli appetiti di ottenere una pronta rivincita da parte dello schieramento avverso. Basta leggere le dichiarazioni dei sostenitori di Bombassei, per riconoscere tutti gli elementi di una malcelata soddisfazione per l’isolamento mediatico nel quale è sprofondato l’incauto Squinzi. Ma soprattutto sono le stesse oculate parole di Monti che possono essere lette, senza sottoporle ad alcuna forzatura, come una entrata a gamba tesa nelle dispute interne a Confindustria. Anche su questo terreno Monti fa e riesce in quello che Berlusconi poté solo tentare con il famoso discorso di Vicenza, ossia la delegittimazione del Presidente della Confindustria, accusato di mostruoso connubio con la segretaria del sindacato meno integrato, cioè la Cgil.
Infine, ma in realtà è l’aspetto più importante, le parole di Monti e il coro di consensi ad esse mietuto sulla grande stampa, con uno spaventoso azzeramento di qualunque livello critico, dimostrano ancora una volta, se ce fosse davvero bisogno, la distanza crescente, anzi la contraddizione sempre più insanabile fra questo capitalismo e la democrazia. Per la sopravvivenza di quest’ultima la condizione minimale è l’esercizio pieno della libertà di critica, tanto più nei confronti delle istituzioni. Se anche questa viene revocata in dubbio, se ogni volta che si solleva il sopracciglio nei confronti di una esternazione del capo dello Stato se ne fa una questione di lesa maestà, se l’operato del governo viene identificato immediatamente come il supremo e unico interesse nazionale, se chi critica viene tacciato né più né meno di alto tradimento, di connivenza con il presunto nemico interno ed esterno, vuole dire che il sistema capitalistico ha deciso che la sua sopravvivenza dentro la crisi e la sua possibilità di superarla possono avvenire solo cancellando la democrazia formale e sostanziale.
Per tutte queste ragioni si dovrebbe guardare alla permanenza di Monti e delle logiche del suo governo oltre le elezioni, ai progetti di costruzione di una italica Grosse Koalition, dal Pd fino a ciò che resta del Pdl, passando per Casini e Fini, un pericolo mortale per il nostro sistema democratico e non solo, che già basterebbe, per le condizioni di vita delle persone. Un pericolo purtroppo assai reale.
*Articolo pubblicato da Gli Altri