di Matteo Bartocci

«Siamo davanti a un importantissimo passaggio nel percorso di costruzione europea, con nuove e sostanziali cessioni di sovranità, è un momento storico e insieme possiamo farcela», afferma il ministro per gli affari europei Enzo Moavero di fronte a un'aula della camera mezza vuota e soprattutto terrorizzata dal «generale agosto» e dalle voci di una nuova manovra del governo.
Montecitorio ha approvato definitivamente in un paio di giorni di non-dibattito i trattati di ratifica del «fiscal compact» e del «Mes», il fondo salva-stati (o salva-banche) dell'eurozona.

Di fatto, la cessione di sovranità che Moavero tanto elogia, è al vaglio delle corti costituzionali della Francia e della Germania (vedi a lato).
Gli impegni europei negoziati da Berlusconi-Tremonti e conclusi da Monti-Moavero sono un punto di non ritorno nella politica interna e internazionale italiana. Il fiscal compact (lo abbiamo scritto sul manifesto di ieri) impone ai paesi firmatari il pareggio di bilancio strutturale e il taglio del debito per vent'anni fino al rientro nella quota del 60% stabilita a Maastricht. Per l'Italia si tratta di un taglio al debito di 40-50 miliardi di euro all'anno fino al 2032, cioè per le prossime 4 legislature con qualunque governo in carica. Sulla carta, difendersi dal rigore imposto dal trattato è impossibile: i controlli di Bruxelles sulla spesa pubblica e sulla politica fiscale sono automatici (sia a priori che a posteriori) e per sfuggire all'austerità serve l'ok della Germania.
Il dibattito alla camera (come quello al senato) è stato di una povertà ai limiti della decenza istituzionale. Aula mezza vuota, ipocrisia a gogò, tecnicismi incomprensibili per l'opinione pubblica. Risultato: su appena 433 presenti, 368 sì, 65 no, 65 astenuti. Banchi vistosamente vuoti: 131 i deputati assenti, tra cui Alfano, Bersani, Casini e ovviamente Berlusconi. Col paradosso che soltanto mezzo Pdl non ha votato un patto (il cosiddetto «six pack») il cui negoziato fu avviato proprio dall'ex premier e dall'ex ministro Tremonti prima della defenestrazione a colpi di spread, scandali e minorenni nel novembre scorso. Il partito del Cavaliere è andato in pezzi: 5 i no (tra cui Guido Crosetto), 43 astenuti (tra cui Antonio Martino) e 56 assenti (tra cui molti ex An come La Russa e Meloni, «big» come Verdini e Alfano e perfino Berlusconi). Totale, 103 voti in meno alla maggioranza di Monti e Pdl spaccato esattamente a metà. La Lega ha votato contro compatta (ma quando era al governo aveva votato a favore) e Idv un po' pilatescamente sugli spalti. Tutti gli altri (Pd e Udc in testa) se non entusiasti arruolati per forza.
Carroccio a parte, le uniche critiche vengono dalla sinistra extraparlamentare: «Lacrime e sangue per vent'anni», sintetizza il verde Angelo Bonelli, «un'ipoteca enorme sul futuro di questo paese», riconosce Oliviero Diliberto del Pdci. Mentre Nichi Vendola (Sel), che pochi giorni fa aveva visto «passi avanti» nella politica del Pd, bolla il via libera di ieri come una «grande deresponsabilizzazione delle forze democratiche che credono di poter sostenere qualsiasi politica antisociale in nome di un vincolo esterno. Bisogna contribuire a fare il contrario». Tutto giusto. Ma manca qualsiasi conseguenza reale verso una possibile alleanza con chi quegli strumenti ha approvato come Pd e Udc. Bersani, assente dall'aula, commenta in serata su Youdem: «Il fiscal compact senza la crescita non risolve i problemi - dice il segretario democratico - perché non basta tirare la cinghia. Se si tira solo la cinghia dopo un po' non c'è più niente, neanche la cinghia». Il rischio, ribadisce, è quello dei «dieci piccoli indiani: la Grecia, l'Irlanda, il Portogallo, l'Italia, la Spagna...».
La situazione europea è in pieno allarme rosso. La preoccupazione per i dubbi di Germania, Olanda e Finlandia uniti al precipitare della crisi spagnola rischiano di far crollare l'euro. Monti oggi affronta l'eurogruppo con la consapevolezza di aver approvato tutto quello che chiedeva la Bce un anno fa senza avere ancora ottenuto nulla di concreto. Il governo fa capire di essere pronto a tutto: vacanze al minimo e ministri reperibili in poche ore. Nonostante le smentite ufficiali, un decreto legge con una manovra ad agosto è più che probabile, come dimostra l'ordine partito ieri di poter convocare all'istante le commissioni Bilancio delle camere per tutta l'estate.

 

da il manifesto

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