di red.

Nessuno può fare più affidamento su prospettive di “crescita miracolosa”. E’ questo il messaggio che ci consegna Dani Rodrik su Project Syndicate, sollevando ulteriori dubbi sui tempi entro i quali le economie occidentali potranno dirsi fuori dalla crisi. Perciò se nei mesi passati molte speranze sono state riposte nella crescita accelerata registrata dalle economie emergenti, sarà meglio che al più presto ci si renda conto che anche questa parte dell’economia mondiale sta registrando una frenata e che, pur nelle migliori previsioni, la ripresa del cammino della crescita non eguaglierà i risultati conseguiti negli ultimi anni.

 

Ma quel che è più interessante del discorso di Rodrik, sono le argomentazioni che danno conto della non accidentalità del presente contesto dello sviluppo mondiale, fugando ogni tentazione di ricorrere ad interpretazioni esoteriche della crisi e con questo anche la tentazione di pensare che “arriveranno tempi migliori”. A questo proposito Rodrik ci ricorda infatti che lo sviluppo delle economie emergenti (per lo più concentrate nell’area asiatica) è dovuto allo straordinario processo di industrializzazione che in esse si è affermato, così come d’altra parte già accaduto in precedenza in altre economie occidentali. Per un paese relativamente arretrato il manifatturiero offre infatti eccezionali possibilità di avanzamento, in quanto è relativamente semplice acquisire tecnologie già sviluppate altrove. Ulteriori progressi sul fronte di una economia più complessa, nella quale siano integrate vaste aree di servizi avanzati, richiedono invece sforzi ben maggiori, poiché è necessario lo sviluppo di competenze più complesse che possono essere accresciute solo gradualmente.

Al dunque, una crescita durevole di lungo periodo, secondo Rodrik, può dirsi costituita di due componenti fondamentali: una base industriale che agisce da volano, e un importante settore dei servizi nel quale si esprime tutta la potenzialità di ciò che è sapere accumulato e innovazione di un dato sistema economico. Lo scenario deve essere però ulteriormente qualificato, poiché l’intero sviluppo mondiale degli ultimi decenni ha conosciuto molti progressi in campo tecnologico, mentre lo stesso significativo allargamento dell’insieme dei competitori ha creato non pochi squilibri nella capacità dei paesi occidentali di sostenere la propria domanda. La maggiore complessità della tecnologia significa maggiore difficoltà di acquisizione della stessa, che si traduce a sua volta in un rallentamento dell’impulso che lo sviluppo industriale può portare alla crescita di un paese. E si capisce come l’intreccio di questo aspetto dello sviluppo con l’aumento del numero dei competitori, renda le cose particolarmente difficili.

Ma se la “teoria” ci dice che la crescita economica ha un motore sempre più sofisticato, il confronto con la realtà attuale è persino più sconfortante. Nei fatti le economie emergenti hanno raggiunto significativi livelli di industrializzazione su base avanzata e occupano ormai importanti fette dell’economia mondiale, mentre le economie occidentali sono alle prese con i loro problemi di stagnazione e di debito sovrano. Le tentazioni “protezionistiche” sono pertanto in aumento e il quadro mondiale sta entrando in una nuova fase di tensione. E a maggior ragione le economie emergenti dovranno, per sostenere la propria crescita, investire costantemente nel miglioramento delle loro competenze tecnologiche e nel governo delle loro istituzioni. Tutto questo per ottenere, alla meglio, un po’ di crescita. Tutto questo per tornare, infine, al punto dal quale eravamo partiti.

La crescita miracolosa delle economie emergenti è quindi alle spalle. E se alla crescita si vuole puntare non c’è altra strada (per qualunque paese) che quella dell’investimento in apparati economici sempre più innovativi.

Un punto che però Rodrik non approfondisce è la tendenza delle economie emergenti a puntare sulla domanda interna. L’aumento dei salari in Cina e i grandi investimenti pubblici annunciati dal Brasile e dalla stessa Pechino sembrano essere parte della strategia sulla quale i “Brics” punteranno nei prossimi anni, pur tra mille contraddizioni, non ultima la repressione violenta delle rivendicazioni sindacali, come nel recente caso del Sud Africa.

 

da Keynes Blog

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