di Guido Iodice e Daniela Palma
Un articolo di Giovanni Perazzoli su MicroMega online [1] indica Keynes blog tra quelle fonti che diffonderebbero false informazioni sulla situazione sociale in Germania. Addirittura, veniamo accusati di essere parte di una “controinformazione italiana” la quale mirerebbe a “smentire che in Germania i salari siano più alti che in Italia”.
In primo luogo è bene chiarire che l'articolo a cui si riferisce implicitamente il nostro critico [2] è stato tratto da Voci dalla Germania [3], che a sua volta riprendeva i contenuti da due siti tedeschi. La “controinformazione” di cui saremmo un pericoloso tentacolo avrebbe perciò radici nella stessa Germania. Ma questo è evidentemente un argomento minore.
Ciò di cui Perazzoli sembra proprio non rendersi conto è che la sua argomentazione integra e conferma la tesi che abbiamo esposto, ossia che il “reddito minimo di cittadinanza”, di cui egli è un sostenitore, è esattamente ciò che ha permesso alla Germania di rendere socialmente sopportabili i mini-jobs, cioè il lavoro sottopagato. Come lo stesso Perazzoli spiega, infatti:
i Mini-Job sono lavori part-time da 400 euro al mese netti rivolti per principio agli studenti, e che – attenzione – si possono sommare a Hartz IV, il reddito minimo garantito tedesco. Nella formula base del reddito minimo garantito questo significa aggiungere altri 360 euro al mese e in più c’è l’affitto pagato per l’alloggio (!), le cure mediche, i soldi per il riscaldamento (!) e una riduzione per i trasporti. Il netto percepito dalla somma arriva a 560 euro al mese. Ognuno comprende il significato del fatto che l’affitto dell’alloggio non pesi sul reddito. E parliamo comunque della base del sussidio: poi per ogni eventuale figlio debbono essere calcolati altri 250 euro circa.
L'entusiasmo che traspare da queste righe per il modello tedesco si riflette anche nel resto dell'articolo, quando, dopo aver rilevato che i “mini-jobs” sono criticati dai sindacati perché destrutturano il mercato del lavoro, si chiede “Ma è sempre un male? Bisognerebbe aprire un discorso (serio) sul lavoro che cambia, e sul ruolo che deve avere il welfare in questo contesto.”
Questo “discorso sul lavoro che cambia e sul ruolo che deve avere il welfare in questo contesto” è ciò che ha attraversato i progressisti europei (compresi quelli italiani) dalla metà degli anni '90 in poi. La tesi è (era) che il lavoro stabile – quello a tempo indeterminato e ben retribuito – è ormai un miraggio per una serie di motivi (cambiamenti tecnologici, globalizzazione della produzione, ecc.) e che contro questi cambiamenti non è possibile – o sarebbe comunque inutile – porre argini. Si deve quindi abbandonare ogni velleità circa la difesa del “posto fisso” (che, come sostiene il premier italiano Mario Monti è “noioso”) e acconciarsi a “proteggere il lavoratore, non il posto di lavoro”, per usare un'espressione tornata in voga grazie al ministro Elsa Fornero. Via quindi alla flexsecurity: si cancellino pure le garanzie nel mercato del lavoro in cambio di maggiori emolumenti dal welfare state. Vale a dire quel che ha fatto la Germania con le riforme Hartz.
Recentemente questo leitmotiv ha preso una forma più cruda e diretta: secondo Luigi Zingales è inutile investire in tecnologie e quindi sollecitare la domanda di lavoro qualificato, ben pagato e magari anche stabile. Gli italiani dovrebbero accontentarsi di diventare un popolo di camerieri al servizio dei milioni di turisti cinesi che invaderanno presto il nostro paese. Mentre gli Stati Uniti si reindustrializzano, salvando il settore auto e reimportando persino le produzioni hi-tec, da noi imperversano ancora i luoghi comuni sull'ineluttabilità della fine dell'industria manifatturiera in Occidente.
Perazzoli ci ricorda giustamente che però in Italia il welfare europeo non esiste e che la maggiore flessibilità non è mai stata compensata da misure come il reddito minimo di cittadinanza. Ciò è vero, e diversamente non poteva essere, dato che l'Italia non può permettersi un welfare generoso a causa dell'elevato debito pubblico accumulato che, in assenza di strumenti di politica monetaria, oggi in mano alla BCE, deve essere inevitabilmente ripagato con le tasse o con altro debito, in una spirale debito-austerità-decrescita che attanaglia il nostro paese almeno dal 1992.
Tuttavia, anche in assenza di questo vincolo, sarebbe pernicioso aderire al “modello tedesco” di bassi redditi compensati da ampio welfare (ampio poi fino ad un certo punto, date le riduzioni delle prestazioni previdenziali). Per inciso, lo stato sociale (un'invenzione dei liberali inglesi attuata dalla sinistra socialdemocratica europea) non è affatto nato per accompagnare la flessibilità e la moderazione salariale. Al contrario, il welfare state ha convissuto con alti salari, mercato del lavoro tendenzialmente rigido, obiettivi di piena occupazione e proprio dagli alti salari e dalla piena occupazione traeva prioritariamente le proprie risorse.
Un welfare che invece vada a compensare i bassi salari e la precarietà è ciò che hanno sempre proposto i liberisti e, non a caso, il “reddito minimo garantito” si ritrova oggi nell'Agenda Monti. Tra i primi a proporlo vi fu Milton Friedman [4]. Secondo l'economista americano lo stato avrebbe dovuto stabilire un reddito minimo, ad esempio 1000 dollari al mese: chiunque percepisse un reddito da lavoro inferiore a tale cifra avrebbe ricevuto un'integrazione fino a quella soglia. L'espressione usata da Friedman era “tassa negativa sul reddito” (in inglese NIT: negative income tax): invece di pagare le tasse allo stato, è lo stato che paga il contribuente, al fine di mantenere in piedi il sistema basato sui consumi. Secondo Friedman la NIT, inserita all'interno di uno schema di tassazione non più progressivo – come nella tradizione sia americana che europea – ma “piatto”, cioè con un'unica aliquota uguale per tutti, avrebbe dovuto sostituire le previsioni del welfare state tradizionale ed essere accompagnata dall'eliminazione dei minimi salariali.
E questo il punto che abbiamo voluto mettere in evidenza con la pubblicazione dell'articolo che non è piaciuto a Perazzoli: in Germania, come in Italia del resto, e a differenza di molti paesi europei, i minimi salariali per legge non esistono e quindi non proteggono i lavoratori precari. Di più: con il nuovo patto sulla “produttività” firmato dalle parti sociali (Cgil esclusa) i minimi stabiliti nei contratti nazionali di lavoro vengono allentati, eliminando i residui meccanismi di adeguamento all'inflazione, sperando così di imitare la Germania nella sua corsa all'abbassamento del costo del lavoro. Il risultato è che il welfare state, slegato dalla piena e buona occupazione, diventa un surrogato per sostenere una massa crescente di “lavoratori poveri” [5]. E' inutile quindi addebitare il tutto all'abuso degli strumenti di flessibilità. Si tratta di una strategia perseguita coscientemente al fine di ridurre il costo del lavoro per influenzare il tasso di cambio effettivo. Una strategia che ha funzionato per la Germania ed è all'origine degli squilibri della bilancia commerciale che, cumulatisi in questi 14 anni di cambi fissi, hanno dato vita ai grandi debiti esteri che minano la stabilità dell'eurozona. Ma una strategia irripetibile, perché faceva leva su comportamenti opposti nei paesi periferici, mercato delle eccedenze tedesche.
Sarebbe quindi suicida per i progressisti mutuare il modello tedesco, riproponendo fuori tempo massimo (e senza risorse) le ricette di moda negli anni '90. Al contrario, essi dovrebbero respingere l'idea di uno stato sociale residuale al servizio di un mondo di bassi salari e riprendere in mano la bandiera della piena (e buona) occupazione e dei salari tendenzialmente crescenti.
NOTE
[1] http://temi.repubblica.it/micromega-online/mini-job-welfare-tedesco-e-disinformazione-italiana/
[2] http://keynesblog.com/2012/12/28/reddito-minimo-o-minimi-salariali-il-caso-tedesco/
[3] http://vocidallagermania.blogspot.it/2012/12/e-davvero-un-jobwunder.html
[4] http://en.wikipedia.org/wiki/Negative_income_tax
[5] A proposito della crescente diseguaglianza in Germania può essere utile leggere i seguenti articoli:
• http://www.businessinsider.com/censored-poverty-report-in-germany-2012-11
• http://corriereberlinese.wordpress.com/2011/12/12/aumenta-anche-in-germania-il-divario-tra-ricchi-e-poveri/