di Diego Angelo Bertozzi*
*Testo della relazione presentata alla conferenza “Cina, politica estera e finanza mondiale” (Milano, 23 giugno 2012)
Nel 1918 un giovane Mao, ancora influenzato dalle idee anarchiche, fonda nello Hunan la Società di studio del Popolo Nuovo. È una delle prime associazioni studentesche che si diffondono in Cina alla vigilia del movimento antimperialista del 4 Maggio 1919. Quanto al futuro della giovane repubblica cinese le idee sono già chiare: “Dovete sapere che gli stranieri vogliono prendere le terre della Cina, vogliono prenderne il denaro e danneggiare il popolo cinese. Non intendo vivere con questa prospettiva senza fare nulla, quindi ora stiamo cercando di fondare una associazione per rendere forte la Cina, in modo che i cinesi possano trovare una nuova strada. Il nostro scopo è guardare al giorno della resurrezione della Cina”.
Alle spalle ci sono i fallimenti dei tentativi di modernizzazione dell’Impero e lo stentato sviluppo della rivoluzione repubblicana del 1911.
Questa citazione rende evidente come sia impossibile nel caso cinese disgiungere movimento rivoluzionario e movimento di liberazione nazionale, rivoluzione socialista e recupero della dignità e dell’indipendenza. Il successo della rivoluzione condotta dai comunisti deve essere valutato per ciò che è veramente stato: il ritorno della Cina alla piena sovranità dopo un secolo di umiliazioni (1840-1949).
Il ricordo di essere stata l’unica regione del Mondo in cui hanno operato tutti gli imperialismi della storia moderna (la Cina come “ipocolonia” secondo la definizione di Sun Yat-sen) e in cui è stato sperimentato l’intero campionario delle forme di influenza straniera è ancora ben vivo nel discorso pubblico cinese e soprattutto nell’autobiografia del Partito comunista cinese. Lo hanno dimostrato da ultimo le due importanti celebrazioni che hanno caratterizzato il 2011: il 90° anniversario della fondazione del PCC e il 100° della Rivoluzione di Xinhai che portò alla fine dell’impero.
In occasione del discorso ufficiale il Presidente della Repubblica popolare Hu Jintao ha nuovamente ancorato la storia del partito e della rivoluzione nella secolare lotta contro la dominazione straniera. Il messaggio è quanto mai chiaro: i comunisti sono gli eredi legittimi di quella lotta, ne hanno preso il testimone per portarla al successo e ora continuano a difenderla: “La nascita del partito comunista è il risultato logico dello sviluppo della storia moderna e contemporanea della Cina e della ricerca ostinata del popolo cinese a favore della salvezza nazionale. Da allora, la rivoluzione cinese ha trovato la sua giusta traiettoria, il popolo cinese cominciò a dotarsi di una potente forza morale e la Cina si è promessa ad un bell’avvenire”.
L’augurio che ha accompagnato la nascita della Società di studio del Popolo Nuovo ha così trovato la via della sua realizzazione.
Concludiamo questa premessa: i primi anni di vita vedono il Partito comunista alleato con la borghesia nazionalista e progressista guidata da Sun Yat-sen, in un Fronte unito che agisce con l’appoggio della Russia sovietica e dell’Internazionale Comunista. Da Mosca era arrivato il messaggio di solidarietà alle lotte di liberazione nazionale condotte dai popoli umiliati dal colonialismo. Crediamo sia noto a tutti il discorso fatto da Mao al momento della proclamazione, l’1 ottobre del 1949, della Repubblica popolare cinese, ma riprenderne un passaggio ci permetterà di comprendere la seconda parte di questo intervento: “Ci siamo uniti, con la guerra di liberazione nazionale, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed esterni […]. Da oggi il nostro popolo entra nella grande famiglia dei popoli di tutto il mondo, amanti della pace e della libertà”.
Con queste premesse è facile capire come la Cina popolare, consumata la rottura con l’Urss, abbia fatto propria l’eredità della Conferenza di Bandung (1955) che sancì la nascita del movimento dei non allineati e che rappresentava milioni di persone uscite dallo sfruttamento colonialistico. È in quella storica riunione che viene riconosciuto ad ogni Paese il diritto di essere arbitro esclusivo del proprio destino ed è enunciato il principio del rispetto, nel comune impegno contro il colonialismo, delle diverse vie di sviluppo scelte da ogni Paese in piena sovranità.
I principi della coesistenza pacifica che regolano la politica estera cinese altro non sono che l’assunzione dei punti del consenso di Bandung: rispetto della sovranità e della integrità territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, parità e reciproco vantaggio negli scambi commerciali.
Chiaro è il rifiuto della logica bipolare della guerra fredda a favore di un equilibrio multipolare contro qualsiasi di pretesa egemonica. Cosa intenda Pechino per pretesa egemonica lo ha chiaramente espresso Deng Xiaoping in una intervista del 1982. Il perseguimento dell’egemonia è il tratto distintivo di una superpotenza: “è superpotenza un Paese imperialista che ovunque fa subire agli altri Paesi le sue aggressioni, i suoi interventi, il suo controllo, le sue imprese di sovversione e di saccheggio. È un Paese che porta avanti un disegno di dominio basato sulla forza”. E così continua in relazione alla Cina: “Molti amici chiedono che la Cina sia leader del Terzo Mondo, ma noi diciamo che la Cina non può essere leader, altrimenti si farà dei nemici. Coloro che praticano l’egemonismo sono screditati. Agire da leader del Terzo Mondo ci procurerà una cattiva reputazione. Questa non è falsa modestia, ma una considerazione di ordine politico”.
Era ormai alle spalle, quindi, ogni logica di esportazione della rivoluzione.
Ora un salto in avanti per arrivare ai giorni nostri: nell’ottobre del 2011 Pechino ha pubblicato il Libro Bianco “La Cina e il suo sviluppo pacifico”, sostanzialmente ignorato dalla nostra stampa, , ma che per rappresenta la base della azione cinese per gli anni a venire sul palcoscenico internazionale. In questo documento è ribadito che l’ascesa della potenza cinese ha carattere pacifico e che lo sviluppo economico ha come fine quello dell’uscita completa dal sottosviluppo e la garanzia di un benessere crescente della propria popolazione. Un ambiente internazionale caratterizzato da cooperazione internazionale e relazioni pacifiche è ritenuto fondamentale per la prosecuzione dello sviluppo economico e sociale cinese. E ad essere ribadite sono ancora le indicazioni di Deng e i principi di Bandung: “La Cina rifiuta di gestire le relazioni con gli altri Paesi sulla base dei regimi sociali o dei fattori ideologici. Essa rispetta il diritto degli altri popoli alla scelta del loro sistema sociale e della loro via di sviluppo, non interviene negli affari interni degli altri Paesi, si oppone a che in grande Paese maltratti un piccolo Paese e che un Paese forte maltratti uno debole, e lotta contro l’egemonismo e la politica del più forte”.
A riaffermare l’egemonia – con i fatti che seguono puntualmente alle parole - sono invece gli Stati Uniti che conducono una strategia di accerchiamento ai danni di Pechino. In occasione del 60° anniversario dell’ANZUS (alleanza militare tra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti), un ferro vecchio della strategia di contenimento del comunismo in Asia, Obama ha rivelato la decisione di aprire una base di Marines a Darwin, in Australia, entro la fine del 2012 – base che si aggiunge a quelle delle isole Marshall, Guam e Okinawa - e dichiarato con solennità che “chiuso un decennio segnato da due guerra sanguinose e costose come Presidente ho preso la decisione strategica di rilanciare il ruolo americano nell’area dell’Asia orientale e del Pacifico […]. Gli Stati Uniti concentreranno qui i loro sforzi per ridefinire la regione e il suo futuro sulla base dei principi che gli sono propri”.
Il riferimento alla ridefinizione in base ai principi americani è l’ennesima riproposizione della tematica della missione di civiltà e della vocazione universale della american way of life. Non si scherza neppure da parte repubblicana se si tiene presente che Aaron Friedberg (consulente già di Dick Cheney e poi di Mitt Romney) invita apertamente a contrastare la sfida geopolitica di Pechino sia sul piano diplomatico che su quello commerciale. Per lui Pechino deve capire che “non può separare Europa, Usa e le democrazie asiatiche, deve sentire lo stesso messaggio da tutte le democrazie del mondo”. Un programma che invita ad una sorta di crociata generalizzata anti-cinese; minaccia che ricorda la missione di civiltà compiuta nel 1900 dalle potenze imperialiste per schiacciare la rivolta dei Boxer.
All’inizio di giugno, in occasione dell’Asia Security Summit di Singapore, il segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta ha nuovamente sottolineato che sicurezza e prosperità degli Usa dipendono dalla situazione dell’Asia Pacifico e che gli Stati Uniti “sono parte della famiglia delle nazioni del Pacifico”. Perché “nel corso della storia abbiamo combattuto guerre, versato il nostro sangue e impiegato le nostre forze per difendere i nostri interessi vitali nella regione. Lo dobbiamo a tutti coloro che hanno combattuto e sono morti per costruire un futuro migliore per tutte le nazioni in questa regione”.
Nel concreto come si sosterrà questo impegno? Entro il 2020, sempre secondo le indicazioni del segretario alla Difesa, la Marina Militare riposizionerà le sue forze tra Atlantico e Pacifico da un rapporto di 50 a 50 a uno di 40 a 60; saranno rafforzati i parternariati con diversi Paesi della regione (Giappone, Corea, Thailandia, Filippine, Singapore e Vietnam) attraverso presenza di truppe, fornitura di armamenti sofisticati e esercitazioni militari congiunte.
A fare da supporto alla pressione diplomatico-militare persiste, anzi pare aumentare, una campagna di demonizzazione anti-cinese che si alimenta della consueta retorica diritto-umanità a difesa dei dissidenti e delle popolazioni tibetane e uigure, presunte vittime di genocidio culturale e repressione. Il ritratto costruito è limpido e netto: la Cina – tranne quando le si chiede di intervenire per salvare l’economia internazionale – è l’emblema dello Stato totalitario negatore di diritti (ovviamente per portare avanti questa operazione devo essere espunti dal campo dei diritti umani quelli economico-sociali in merito ai quali Pechino ha compiuto indubbi progressi).
E se la Cina è uno Stato totalitario è ovvio che si schieri contro le aspirazioni alla libertà dei popoli. Quando nel febbraio del 2012 Russia e Cina hanno posto il veto in Consiglio di Sicurezza in merito ad una risoluzione sulla Siria tanto sbilanciata da poter innescare l’ennesima aggressione militare, si è subito guidato al fronte unito delle dittature contro la democrazia, evitando ogni sorta di ragionamento sulle motivazioni di quella decisione e, soprattutto, chiudendo gli occhi di fronte allo scempio commesso in Libia dalla cura democratica della Nato.
Ebbene è facile comprendere la posizione cinese proprio perché abbiamo chiarito i principi alla base della sua politica estera e perché Pechino, dopo una discutibile astensione sulla risoluzione 1973 sulla Libia, ha subito preso posizione contro quello che ha definito “Nuovo paradigma di interventismo umanitario”, grazie al quale per sovvertire un governo sgradito non servono una invasione o una occupazione militare, ma è sufficiente utilizzare e mobilitare movimenti di opposizione interna debitamente istruiti, finanziati e armati (è a conoscenza di tutti, grazie anche alle rivelazioni della stampa, quanto accade in Siria).
In un pregevole, quanto condivisibile, intervento su Xinhua del settembre dello scorso anno, possiamo leggere che “la guerra alla Libia è una ulteriore dimostrazione che l’Occidente non esita ad intervenire negli affari interni di un Paese con ogni mezzo per assicurare i suoi interessi nazionali. Se in questi ultimi anni ha fatti ricorso a mezzi più o meno dissimulati di rivoluzione colorata per promuovere la ‘democratizzazione’, la guerra di Libia è il modella della democratizzazione realizzata direttamente con l’uso delle armi”.
Eppure la posizione cinese sulla vicenda siriana è fin dall’inizio molto chiara: assoluta contrarietà a qualsivoglia ipotesi di interventi armato per rovesciare un governo legittimo. E, soprattutto, non si tratta di una posizione appiattita sul sostegno acritico al governo di Assad. Non è, infatti, un segreto che Pechino veda come via di soluzione l’avvio di riforme interne e l’apertura di un dialogo tra governo e forze di opposizione nazionali e patriottiche (tra queste i comunisti).
Dall’altra parte c’è una autonominatasi “comunità internazionale” , meglio conosciuta come “Amici della Siria” che ha promesso di stanziare una somma di 276 milioni di dollari a favore del Consiglio di transizione Siriano e del Libero esercito siriano e di fantomatici aiuti umanitari per le popolazioni colpite dalla repressione governativa. Tra gli aiuti umanitari figurano anche – come specificato dal segretario di Stato Hillary Clinton – mezzi per testimoniare e far conoscere la repressione. Insomma si tratta di sostenere una vera e propria guerra informativa per sostenere una eventuale operazione d guerra!
Il quadro è chiaro: da una parte stanno Paesi e potenze interessate ad attizzare il fuoco delle discordie interne per giustificare una intervento “umanitario”, dall’altra ci sono Paesi e potenze emergenti come la Cina che insistono per una soluzione interna attraverso il dialogo.
Occorre sottolineare che la posizione di Pechino è sostanzialmente condivisa dai Paesi come la Russia, il Brasile, India e Sudafrica (che pare non facciano parte della comunità internazionale). Nella risoluzione finale del quarto vertice dei BRICS (Delhi, marzo-aprile 2012) si legge: “Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la situazione attuale in Siria e chiediamo la fine immediata di ogni violenza e delle violazioni dei diritti umani in quel Paese. Gli interessi globali sarebbero meglio serviti se si affrontasse la crisi con mezzi pacifici che favoriscano ampi dialoghi nazionali che riflettano le legittime aspirazioni di tutti i settori della società siriana e rispettino l’indipendenza siriana, l’integrità territoriale e la sovranità. Il nostro obiettivo è quello di facilitare un processo politico siriano inclusivo”.
Considerazioni simili si trovano anche nel comunicato finale del vertice della Shanghai Cooperation Organization (Pechino, giugno 2012): “Gli Stati membri del gruppo si Shanghai sono contro un’interferenza militare negli affari interni della regione (Medio Oriente e Nord Africa), sanzioni unilaterali e cambi di potere forzati. […] Gli Stati membri sottolineano la necessità di fermare ogni violenza sul territorio siriano, da qualsiasi parte essa venga, rispettano il dialogo nazionale, basato sull’indipendenza, l’integrità territoriale e la sovranità della Siria”.