di Federica Pitoni
«Perché gli Israeliani sono incapaci di riconoscere l’alto grado di criminalità della campagna del loro esercito contro il Popolo Palestinese?… Cos’è che ci ha trasformato in criminali tanto efficienti? Temo che nel nostro subconscio collettivo sia possibile che non respingiamo del tutto la possibilità di un genocidio dei Palestinesi…». (“La guerra più lunga: Israele in Libano” – Jakobo Timerman).
L’odore della morte, della carne in putrefazione in quel caldo settembre di trent’anni fa accolse la Croce Rossa e i primi giornalisti che entrarono nei campi di Sabra e Shatila il giorno dopo, a eccidio avvenuto: chi pianse ininterrottamente
, chi svenne, chi vomitò, chi, ripresosi, tra i fotoreporter, cominciò a scattare foto, gli occhi fissi e impietriti e l’obiettivo a fermare un orrore che mente umana non poteva concepire, ma era lì, vero e presente, di fronte a loro. Come si può raccontare cosa accadde in quei tre giorni nei campi di Sabra e Shatila? Quali parole usare e come può la parola descrivere l’orrore? Forse c’è solo un modo: parole che si accavallano nella descrizione, come si accavallarono gli eventi per quaranta ore dal 16 al 18 settembre di quel lontano 1982.
Entrarono i miliziani libanesi alle cinque del pomeriggio del 16 settembre nei campi, appositamente circondati e inaccessibili per tutti, presidiati dalle truppe israeliane di Ariel Sharon, che al settimo piano di un palazzo poteva godere di tutta la scena. Gli israeliani spararono razzi illuminanti alla frequenza di due al minuto: dalle cinque del pomeriggio del 16 fino alle 10 del mattino del 18 settembre a Sabra e Shatila non fu mai buio. Entrarono i miliziani, prima silenziosamente e coltelli e asce e pugnali e baionette tagliarono lembi di carne e mutilarono corpi: decapitarono, sgozzarono, sventrarono, aprirono il ventre alle donne incinte per estrarne il feto – «dalle donne incinte nasceranno dei terroristi» – facendone scempio. Tagliarono membra, mani amputate per sottrarre velocemente bracciali nei loro saccheggi. Stuprarono donne e bambine. Impalarono uomini e bambini. Uccisero neonati schiacciandone la testa contro i muri. Infierirono sui cadaveri: teste, gambe, braccia tagliate dai corpi morti che giacevano a terra, uomini uccisi e poi castrati. Nelle ultime ore, le milizie avevano fretta: le voci di quel che stava accadendo cominciavano a circolare. Tutt’intorno erano solo cadaveri e i miliziani sparavano a tutto ciò che vedevano muoversi. Velocemente di nuovo gli ingressi dei campi videro entrare e uscire infiniti camion carichi di cadaveri e feriti, gettati poi tutti insieme in fosse comuni. Si stima che il numero delle vittime del massacro sia stato di circa 3.000 persone.
Trent’anni sono passati da Sabra e Shatila e tutti i responsabili del massacro sono a piede libero, così come nessuno degli israeliani che consentirono alle truppe assassine di compiere la strage ha mai subito un processo, nonostante la IV Convenzione di Ginevra del ’49 e il Protocollo del ’77 sanciscano che la responsabilità di un crimine ricade sui comandanti occupanti se, in qualità di persone dotate di autorità, essi sono a conoscenza del fatto che si stanno commettendo crimini e se hanno il potere di intervenire per arrestare le azioni criminali.
Facciamo un po’ di cronologia storica ora per inquadrare meglio l’eccidio. Nel giugno dell’82 le truppe israeliane invadono il sud del Libano con l’intento di smantellare velocemente l’Olp e cercare forse di uccidere Yassir Arafat: per 88 giorni invece uno dei più forti eserciti al mondo è costretto in una battaglia che lo vedrà avere molte perdite e condanne internazionali. Il 29 luglio l’Olp, accettando il piano della Lega Araba, decide di lasciare il paese e trasferirsi a Tunisi. Nell’agosto si insedia la Forza Multinazionale di Interposizione, che dovrà garantire l’ordine durante il ritiro dell’Olp da Beirut e l’incolumità dei palestinesi rimasti, con un mandato di un mese, dal 21 agosto al 21 settembre. Il 23 agosto il Parlamento libanese elegge Beshir Gemayel presidente della Repubblica, uomo vicino agli interessi israeliani, che vuole fuori dal Libano tutta la presenza palestinese. Ma a Beirut Ovest vi sono i Murabitun dei nasseriani, gli sciiti di Amal i drusi di Walid Jumblatt. Per poter controllare la parte Ovest di Beirut, Gemayel ha bisogno degli israeliani e deve liberarsi della Forza Multinazionale per i suoi progetti. E così la Forza Multinazionale lascia il Libano nella prima metà di settembre. Camion e bulldozer si muovono: portano truppe per la distruzione dei campi di Sabra e Shatila e scavano fosse comuni. Il 14 settembre un attentato, ad opera di un appartenente al Partito social-nazionalista siriano, devasta la sede di Kataeb, partito delle Falangi cristiane, e fa 21 morti, fra cui Beshir Gemayel. Il 15 settembre le truppe israeliane invadono Beirut Ovest e circondano i campi profughi, rendendo impossibile a chiunque l’avvicinare alla zona. «L’entrata di Tsahal a Beirut porta pace e sicurezza ed impedisce un massacro della popolazioni palestinesi. Stiamo impedendo una catastrofe», è una delle dichiarazioni di quei giorni. Gli israeliani rassicurano il rappresentante degli Stati Uniti, Philip Habib, sull’incolumità dei civili palestinesi e nel contempo il comandante Eytan concorda con il capo delle Forze libanesi di dare il comando dell’operazione a Sabra e Shatila a Elias Hobeika, responsabile dei servizi speciali libanesi. Quel che accadde abbiamo tentato di narrarlo.
Due estratti di articoli del 20 settembre 1982: Amos Kennan su Yediot Ahronot scrive: «In un sol colpo, signor Begin, lei ha perduto il milione di bambini ebrei che costituivano tutto il suo bene sulla terra. Il milione di bambini di Auschwitz non è più suo. Li ha venduti senza utile». Anche per gli israeliani è difficile accettare l’idea di essere corresponsabili: un corteo di 400mila persone percorre Tel Aviv con slogan contro il governo e contro Sharon. Sempre il 20 settembre su The Guardian, James Machanus scrive: «Molte case erano state fatte saltare con la dinamite o spianate con i bulldozer, cosicché tutto quello che rimaneva da vedere dei loro abitanti erano membra staccate, capelli misti a sangue o mani che uscivano dalle macerie. In un caso, una madre e un padre erano stati colpiti ripetutamente mentre cercavano di far scudo con il loro corpo a tre bambini, che giacevano nelle loro braccia, con i volti pietrificati, trasformati in maschere di terrore. Coloro che hanno visitato i luoghi dei massacri ed hanno osservato l’ubicazione delle postazioni degli israeliani, quali esse erano venerdì, a meno di 500 metri di distanza, non possono credere che il massacro abbia avuto luogo senza che gli israeliani sentissero o vedessero. Oltretutto, gli israeliani avevano sistemato dei posti di comando sulla sommità di due alti edifici che affacciavano sui campi. La conclusione è che, non solo gli israeliani avrebbero potuto osservare l’operazione dei falangisti – operazione che, almeno in parte, si svolse durante le ore del giorno – ma hanno certamente udito gli urli di dolore dei morenti».
Il 25 settembre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu condanna i massacri. Gli Usa votano contro.
Nel 2002 il Tribunale dell’Aja accusa Ariel Sharon di crimini contro l’umanità, sulla base delle dichiarazioni del comandante Hobeika, che aveva deciso di testimoniare. Si sarebbe dovuto presentare in aula ai primi di febbraio. Il 24 gennaio Hobeika salta in aria in un misterioso attentato.
Trent’anni sono passati e le stragi di Sabra e Shatila non hanno nessun colpevole condannato. Trent’anni sono passati e molti hanno dimenticato o non hanno mai saputo. Per questo è importante continuare a narrare la terribile e tragica storia di Sabra e Shatila, perché la memoria resti e tormenti l’umanità. Oggi la Palestina sta vivendo giorni molto difficili e forse per la prima volta il popolo palestinese rischia di vedersi diviso. Che la memoria delle vittime di Sabra e Shatila e di tutte le troppe vittime che il popolo palestinese ha avuto sia da monito: la lotta non può vedere divisioni. Non si cada nel gioco di chi ha tutto l’interesse nel veder disuniti e deboli i palestinesi. Thawra Hatta al Nasri.
da Essere comunisti.it