di Bruno Steri

Nel giorno in cui alla fine dello scorso marzo una delegazione Prc-Pdci arrivò in Cina, la prima pagina del Business China Daily così titolava: Le aziende Usa prevedono per la Cina una crescita più lenta. L’articolo riportava i dati di un sondaggio condotto dalla Camera di Commercio Americana tra gli amministratori delegati delle principali multinazionali Usa presenti nel Paese: dall’indagine risultava che, per l’80% degli intervistati, “i costi crescenti ostacolano il business” e che la metà di essi vede a rischio i propri margini di profitto, in quanto “l’inflazione salariale e le nuove misure per la sicurezza sociale hanno significativamente spinto in alto i costi operativi”.

Nonostante i proclami un po’ ipocriti a proposito di diritti umani e provvidenze sociali, a storcere il naso per i provvedimenti migliorativi delle condizioni di lavoro adottati dal governo cinese erano proprio gli emissari commerciali del mondo capitalistico. Penso che, per una valutazione di sostanza del 18° Congresso del Partito Comunista Cinese, sia anche e soprattutto questo l’ordine di questioni da tenere sotto attento esame – contrariamente agli interessi della stampa occidentale, quasi esclusivamente orientata a evidenziare le pur significative vicende di corruzione che hanno coinvolto autorevoli esponenti del partito.

A conferma di questa propensione analitica, è istruttivo seguire i ragionamenti proposti dai businessmen nostrani e dai loro maîtres à penser, alla vigilia del Congresso: ad esempio, le argomentazioni che il prof. Giuliano Noci – prorettore del Polo territoriale del Politecnico di Milano – ha affidato ad AgiChina24, portale on line dedicato da ‘il Sole 24 Ore’ al Paese del Dragone. La domanda assai interessata che gli osservatori internazionali hanno posto al 18° Congresso del Pcc è la seguente: Cambierà o non cambierà la Cina? Attuerà o no le riforme? Già, ma quali riforme? Secondo il Noci, a seguito dell’incalzare della crisi, anche la Cina dovrà accelerare il passo “riformatore”: per rispondere al rallentamento economico (del suo Pil, ma in generale dell’economia mondiale), dovrà “andare oltre Deng” e segnare una discontinuità netta anche rispetto al modello di sviluppo dell’ultimo decennio, che pure a suo dire ha i suoi meriti, così come è stato applicato dal duo Hu/Wen (Hu Jintao, l’ormai ex Presidente della repubblica Popolare nonché capo del Partito, e Wen Jiabao, ex Primo Ministro). Quale dovrebbe essere la direzione del cambiamento? Si deve spingere sulla domanda interna, incrementando la propensione al consumo dei cinesi; si deve liberalizzare il sistema finanziario (“quantomeno con riferimento al regime di fissazione dei tassi di interesse e al servizio del credito alle imprese”); si deve lasciare spazio all’impresa privata (“inducendo nei giovani, a livello educativo, una maggiore propensione al rischio”). In sintesi, occorre “creare le condizioni perché si liberino tutte le energie imprenditoriali disponibili”. Il prof. Noci chiede alla Cina né più né meno di quello che ha chiesto il rapporto della Banca Mondiale, “Cina 2030”, pubblicato lo scorso febbraio: una profonda ristrutturazione dell’economia in senso liberista e una compiuta integrazione, politica e istituzionale, al mondo occidentale.

Dunque, sarebbe l’ora di scelte radicali. Si tratterebbe di spingere sulla domanda e i consumi interni del nuovo ceto borghese, alimentando la crescita del Pil nelle grandi città e nelle ricche aree costiere: esattamente il contrario di quanto fatto dal duo Hu-Wen i quali, soprattutto negli ultimi anni, hanno sostenuto la necessità di un approccio che attenui gli squilibri sociali e le disuguaglianze e curi lo sviluppo dell'entroterra e delle aree interne. Si vorrebbe smantellare il controllo pubblico sul sistema creditizio, aprendo al mercato finanziario internazionale: precisamente l’opposto di quello che la Cina ha sin qui fatto, mantenendo l’assetto proprietario delle banche sotto il controllo dello Stato, sottraendosi alle fluttuazioni del mercato mondiale indotte dalla libera circolazione dei capitali, chiudendo il sistema finanziario interno a speculatori e hedge fund vari e impedendo così – sulla base di una precisa strategia - il contagio da parte delle crisi del debito che stanno affliggendo l’economia capitalistica. Si auspicherebbe altresì un mutamento qualitativo negli assetti proprietari del Paese, capovolgendo gli orientamenti sin qui prevalenti: quelli che hanno condotto in questi anni ad una considerevole espansione del settore privato, ma nel contesto di un sempre crescente peso del settore pubblico di rilievo strategico (le State Owned Enterprises, le imprese di proprietà dello Stato, rappresentano l’80% del valore di listino del mercato azionario cinese e lo Stato stesso è il maggiore azionista nelle 150 principali aziende del Paese, oltre a possedere migliaia di altre imprese).

Da quel che si legge, il Congresso ha rispedito al mittente i suddetti interessati consigli. Nel suo complesso, la dirigenza cinese si mostra consapevole della necessità di aggredire gli squilibri (sociali, territoriali, ambientali) ad oggi non risolti; ma decide di farlo “secondo tradizione”, scegliendo per il Partito un passaggio soft in cui prevalgono le linee di continuità, tenendo bassa la dialettica profilatasi all’interno del gruppo dirigente (ed esaltata sulla stampa internazionale anche attraverso gli eclatanti casi di corruzione). Così, l’offensiva contro la sinistra maoista, con il blocco dei suoi siti più visitati (Utopia, Vocedelpopolo, Cina-Rossa) - partita all’indomani della sospensione di Bo Xilai dalla carica di segretario del partito di Chongqing e della sua espulsione dal partito – non ha scalfito la capacità di tenuta complessiva e la volontà di pervenire ad un passaggio di consegne “morbido”. “Senza riforme si rischia una nuova rivoluzione culturale”, aveva detto il premier Wen Jiabao a conclusione dell’Assemblea Nazionale del Popolo tenutasi lo scorso marzo. Egli lanciava l’allarme in relazione al possibile inasprirsi del malcontento popolare: in un contesto di sviluppo economico che ha comportato una distribuzione eterogenea del benessere, i ripetuti casi di corruzione rischiano di essere infatti benzina sul fuoco. Di qui, l’insistenza sulla necessità di “riformare il sistema”. Tuttavia, quanti avevano sperato che tale espressione alludesse ad una transizione all’indietro, verso un’economia di mercato capitalistica, hanno visto deluse le loro attese. La relazione introduttiva di Hu Jintao, lungi dall’archiviare “il grande timoniere”, lo ha citato più volte (a emblematica conferma di continuità dell’esperienza “rivoluzionaria” cinese) e ha gelato le aspettative filo-occidentali “Bisogna estendere la democrazia popolare, ma non copieremo mai i sistemi politici occidentali”. Nel solco della via cinese alla democrazia socialista (o, altrimenti detto, del “socialismo con caratteristiche cinesi”), si situa l’obiettivo di “uno sviluppo più bilanciato, coordinato, sostenibile”: che restringa la forbice tra ricchezza e povertà, riequilibri le disparità territoriali, incrementi il Pil pro-capite “per i residenti sia urbani che rurali”. Il tasso di cambio dello yuan potrà forse assecondare meglio i criteri di mercato; ma certamente sarà confermato il ruolo centrale del sistema pubblico del credito e delle imprese di Stato.

Come previsto, Xi Jinping succede a Hu Jintao quale Presidente della Repubblica Popolare e Li Keqiang a Wen Jiabao nel ruolo di premier. Il Comitato Permanente del Politburo scende da 9 a 7 membri. Come voleva Hu.

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