di Michelangelo Cocco
I greci vanno oggi alle urne con i cannoni dei mercati e dei leader dell'area euro puntati addosso. Gli avvertimenti che i grandi media, nazionali e internazionali, hanno lanciato nelle ultime settimane sono spaventosi. La sinistra al governo porterebbe Atene fuori dall'Europa. In caso di successo di Alexis Tripras e della sua Syriza, domani mattina migliaia di risparmiatori greci - quelli che non hanno ancora seguito l'esempio dei ricchi
che negli ultimi due anni hanno parcheggiato all'estero almeno 50 miliardi di euro - ritirerebbero i loro soldi, facendo crollare le banche.
Ce l'hanno messa tutta per trasformare l'elezione per il parlamento di Atene (300 seggi) in un referendum sull'euro. Hanno cominciato la cancelliera tedesca Merkel (che ancora ieri, a Bloomberg, ha ripetuto che dal voto deve uscire un governo che ribadisca il sì all'«austerità») e il presidente francese Hollande, poi si sono uniti al coro il presidente della Commissione europea Manual Barroso, quello della Bce Mario Draghi e via via scendendo nella gerarchia dell'Europa che comanda.
Ingerenze sfacciate sulla cui efficacia il Financial Times ha sollevato qualche dubbio. Per il quotidiano finanziario si tratta di «una scommessa politica pesante» che questi politici «credono gli possa permettere di riguadagnare elettori delusi dalle dure condizioni dei piani di salvataggio ma desiderosi di rimanere nella moneta unica».
Circa l'80% dei cittadini vuole infatti restare nell'euro e nell'Ue. Così come, tranne i comunisti ortodossi del KKE (che scommettono sull'implosione dell'Unione europea e la proletarizzazione del Paese) e i neonazisti di Chrisi Avgi, tutti i partiti politici greci.
Ma lo slogan del leader di Syriza, Alexis Tsipras, secondo il quale si può battere il memorandum che ha imposto alla classe media e ai poveri condizioni durissime per ricapitalizzare le banche elleniche, nelle ultime settimane sembra aver fatto breccia sulle famiglie, molto oltre i confini tradizionalmente angusti della sinistra greca. Tanto che sia i conservatori di Nuova democrazia - i vincitori delle inconcludenti elezioni del 6 maggio scorso - sia i cocci del partito socialista PASOK sono stati costretti a promettere agli elettori che, se andranno al governo, si batteranno per emendare quell'accordo che proprio loro hanno sottoscritto con la troika (Bce, Commissione Ue e Fmi). E forse la speranza, la parola chiave della campagna di Syriza, oggi potrà avere il sopravvento sulla paura, quella di una povertà sempre più evidente, quella degli stranieri, bastonati per strada dai neonazisti, quella che possa ripetersi lo stallo del 1989-1990, quando il Paese andò a votare tre volte prima di riuscire ad avere un governo.
Il PASOK (13,18% il 6 maggio, -30,74% rispetto al voto precedente) corre anzitutto per capire se è ancora vivo. Basterebbero poche altre centinaia di migliaia di voti in fuga verso Syriza (oltre ai circa 700.000 che sono già passati dai socialisti alla sinistra radicale il 6 maggio) per decretare la fine di uno dei due blocchi di potere che hanno governato la Grecia dopo la caduta del regime dei colonnelli.
La battaglia è tutta tra ND e Syriza, rispettivamente 18,85% e 16,78% il mese scorso. Il leader dei conservatori Samaras ha fatto una campagna incolore, si è contraddetto più volte e, in definitiva, non ha trovato di meglio che unirsi al coro secondo cui con Syriza si esce dall'Ue.
Tsipras ripete che il memorandum va annullato, come primo atto di un suo eventuale esecutivo, mentre esponenti più moderati di Syriza suggeriscono che potrebbe essere emendato. Sia come sia, sembra impossibile che possa ottenere la maggioranza assoluta e quindi, nell'eventualità di una vittoria, dovrebbe comunque cercare un accordo con partiti più moderati. Sempre che, nel mese e poco più trascorso tra il terremoto politico del sei maggio e questa sera, quando saranno resi noti i risultati, altri elettori abbiano davvero deciso di abbandonare il PASOK, ND, il KKE, e imboccare la sua «strada della speranza».
da il manifesto