La COP26 è la ventiseiesima conferenza internazionale che segue la scia degli Accordi di Rio del’92, accordi che confluiscono nella creazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, in inglese United Nations Framework Convention on Climate Change da cui l'acronimo UNFCCC o FCCC), ovvero un trattato ambientale internazionale.
Il nome COP (Conferenza delle Parti) fa riferimento al fatto che possono prendervi parte, indipendentemente, anche singoli comparti degli Stati (es. città, province, regioni).
Il trattato, come stipulato originariamente, non poneva limiti obbligatori per le emissioni di gas serra alle singole nazioni, quindi era legalmente non vincolante. Esso però includeva la possibilità che le parti firmatarie adottassero, in apposite conferenze, atti ulteriori, detti "protocolli", che avrebbero posto i limiti obbligatori di emissioni. Il principale di questi, adottato nel 1997, è il protocollo di Ky?to.
Le Conferenze delle Parti nascono per valutare il progresso da parte dei singoli Paesi nel trattare la questione dei cambiamenti climatici, in modo da poter avere nel corso degli anni un quadro completo sulle misure effettivamente messe in campo per contrastare la crisi climatica. Dal 2016, la conferenza accoglie anche gli incontri delle parti con riferimento all'Accordo di Parigi, che ha l’obiettivo di i contenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2 °C oltre i livelli pre-industriali, e di limitare tale incremento a 1,5 °C, poiché questo ridurrebbe sostanzialmente i rischi e gli
Fallimentare totalmente la COP-25, che si è svolta a Madrid dal 2 al 13 dicembre 2019, durante la quale gli Stati avrebbero dovuto concordare le regole di funzionamento dell’Accordo di Parigi del 2015, pensato per essere pienamente operativo a partire dal 2020.
La Conferenza si era arenata su alcuni temi “caldi” che saranno argomento di discussione, tra altri, anche in questa COP:
l’articolo 6 dell’accordo di Parigi sull’utilizzo dei mercati di carbonio, fortemente contestati dalle organizzazioni della società civile.
il meccanismo di compensazione del “loss & damage”, ovvero “perdite e danni climatici”, che richiama da un lato il concetto di “danno ambientale” e, dall’altro, l’espressione “losses” che indica “perdite assicurate”.
I crescenti costi, umani ed economici, derivanti dal cambiamento climatico, furono discussi dall’ ONU per la prima volta nel 1991, ed entrarono a pieno titolo nell'agenda delle Nazioni Unite durante la COP di #Cancun nel 2010, per poi essere formalizzati come “loss & damage” due anni dopo a #Doha. A Doha venne approvato un documento che impegna le parti a sviluppare un meccanismo per affrontare i danni derivanti dal cambiamento climatico. Il testo di Doha rimane generico, parlando di gestione integrata dei rischi e coordinazione e sinergie tra vari organismi, rinviando alla COP di Varsavia la definizione di accordi specifici sul tema. L’ipotetico meccanismo di compensazione si baserebbe su aiuti, sia finanziari che in termini di sviluppo delle competenze, da parte dei paesi industrializzati a favore dei paesi meno sviluppati e più vulnerabili agli estremi climatici: “finance, technology and capacity-building, for relevant actions, nella versione originale inglese”.
Il tema presenta numerosi interrogativi. Primo fra tutti, il rischio di aggiungere una dimensione di responsabilità legale ai danni legati al clima. Questa dimensione sarebbe particolarmente preoccupante a causa della difficoltà nell’attribuzione di un evento specifico al cambiamento climatico. Una difficoltá addizionale deriva dalle dinamiche climatiche a lungo termine, per esempio l’innalzamento del livello del mare, che saranno molto piú difficili da quantificare e gestire rispetto ai singoli eventi estremi. Ovviamente, i paesi che si prospetterebbero riceventi dell'aiuto si stanno schierando a favore del loss and damage, mentre i paesi industrializzati sono molto cauti sul tema, se non apertamente contrari.
il Green Climate Fund, istituito nel 2010 durante la 16° Conferenza sul clima, come meccanismo finanziario con il compito di sostenere i Paesi in Via di Sviluppo nelle politiche di contenimento delle emissioni di gas serra.
le tempistiche di aggiornamento degli NDC, i contributi nazionali al raggiungimento degli obiettivi target dell’Accordo di Parigi di contenimento dei cambiamenti climatici, attualmente largamente insufficienti rispetto alle raccomandazioni della comunità scientifica e in particolare dell’IPCC.
I funzionari dei quasi 200 paesi non sono riusciti a superare i loro diversi punti di vista su questi punti chiave.
Altri elementi di dibattito sono stati il riferimento al Gender Action Plan, completamente sparito dalla decisione finale e l’accettazione del Rapporto Speciale dell'IPCC sugli impatti dei cambiamenti climatici sui Territori, che alcuni Paesi, Brasile in testa, vorrebbero fosse affrontato in separata sede, insieme al tema molto dibattuto sulla deforestazione e riforestazione dell’Amazzonia.
Ricordiamo che gli Stati Uniti sono usciti dall'accordo di Parigi a novembre del 2020, ma non sono gli unici con la “maglia nera”, anche India, Cina, Australia e Brasile, si stanno mettendo di traverso di fronte a tutte le richieste di sostenibilità.
Il fallimento della COP 25 parla chiaro: il profitto non vuole piegarsi al verdetto senza appello della scienza e ancor meno alle mobilitazioni sul clima che hanno portato in piazza milioni di persone nel mondo, che chiedono di evitare la catastrofe climatica e trasformare radicalmente l'economia.
Quindi la Cop 26 si apre nell'anno più nero per l'emergenza climatica, tra disastri annunciati, allarmi della scienza e ritardi della governance.
A sei anni dall'Accordo di Parigi e a due anni dall'ultimo summit di Madrid, non c'è davvero più tempo da perdere. Glasgow sarà il momento decisivo per definire se c'è la volontà politica di costruire un'azione globale di contrasto all'emergenza climatica.
Quello che volge al termine è stato a livello globale uno degli anni più drammatici per la gravità e la capillarità degli impatti del clima che cambia: dall'uragano che si è abbattuto di recente sulla Sicilia, ai i roghi inarrestabili che hanno interessato l'area mediterranea durante l'estate fino alle inondazioni in Germania e gli impatti della crisi climatica sono già realtà anche in Italia.
Per rispettare l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C serve fermare immediatamente tutti i nuovi progetti sui combustibili fossili e:
impegnarsi a dimezzare le emissioni globali entro il 2030;
fermare l’apertura di un mercato globale delle compensazioni di carbonio e favorire una cooperazione internazionale trasformativa;
stanziare un fondo, finanziato dai Paesi ad alto reddito, per consentire ai Paesi a basso reddito di mitigare gli impatti della crisi climatica, sviluppare sistemi di energia rinnovabile per abbandonare i combustibili fossili e compensare i danni già causati dagli impatti climatici nei Paesi più vulnerabili;
fermare la deforestazione predatoria dell’Amazzonia, accelerata dalle politiche fasciste di Bolsonaro;
ridurre l’inquinamento da fonti umane che deriva per il 25% dalla produzione di elettricità e calore, dalla combustione di carbone, gas naturali o petrolio, per il 24% dall’agricoltura, allevamento e deforestazione; per il 14% dai trasporti; per il 6% dal consumo di combustibili fossili per uso residenziale o commerciale e per 10% da altre attività come raffinazione del petrolio, estrazione dei combustibili fossili e il loro trasporto.
Giustizia climatica è giustizia sociale.