di Gaetano Azzariti

È ormai passato un anno dallo straordinario successo del referendum sull'acqua pubblica. Da allora tanto il potere politico quanto le autorità amministrative continuano ad operare come se nulla fosse: si accusano i referendari di volere imporre una ideologia - quella del "bene comune" - cui il governo, la sua vasta maggioranza e le istanze tecniche non sarebbero tenute a sottostare. Anzi, si prosegue nella politica di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali ripristinando la normativa abrogata per via referendaria e ridefinendo, sotto mentite spoglie, il sistema di remunerazione del capitale investito.


In sostanza dunque facendo prevalere la contraria ideologia che contrassegna questo governo - quella del "bene privato" - realizzando le politiche di smantellamento del pubblico. La richiesta del rispetto dell'esito referendario del giugno scorso non ha però nulla a che fare con l'ideologia. È sul piano ben più elevato della democrazia che si pone la questione. Quale che sia, infatti, l'opinione in merito alla gestione dei servizi pubblici locali, si tratta ora semplicemente di dare seguito a quanto voluto dalla maggioranza del corpo elettorale.
È certo che ogni richiesta referendaria contiene in sé un elevato tasso di politicità e - se così vuol dirsi - di ideologia (ma meglio sarebbe dire "idealità"). Scopo dell'istituto di partecipazione diretta è, infatti, proprio quello di far partecipare i cittadini alle scelte strategiche del Paese. Nel caso dell'acqua era limpido il terreno dello scontro e la diversità delle visioni che si contrapponevano. Da un lato i fautori della privatizzazione ad oltranza dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e i sostenitori delle virtualità del mercato anche nell'ambito del servizio di fornitura idrica, che si schierarono contro la richiesta dei referendari; dall'altro coloro che si opponevano a questa ideologia, affermando, all'inverso, che tramite l'abrogazione delle disposizioni oggetto del referendum (l'art. 23 bis del cosidetto decreto Ronchi, relativo a tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica e l'art. 154 del cosiddetto codice dell'ambiente, concernente la "remunerazione del capitale investito") si sarebbe dovuta affermare una nuova concezione dei beni comuni. Una visione che non obblighi alla privatizzazione di tutti i servizi locali come la normativa allora vigente - di fatto - imponeva, forzando la stessa normativa europea, che invece lascia ampio spazio per la gestione pubblica dei servizi di rilevanza economica. Si volle, inoltre, escludere di dover considerare il servizio idrico alla stregua di ogni altro bene economico cui va permesso lo sfruttamento e garantita la rendita del capitale investito.
Il referendum, com'è noto, in Italia ha carattere meramente abrogativo di norme (ai sensi dell'art. 75 Cost.), dunque non si può chiedere ai promotori di individuare la nuova normativa. È questa la ragione per la quale, ogni volta - fatta eccezione per i referendum di natura manipolativa, che fanno caso a sé - dopo l'esito del voto popolare, per quanto questo possa essere stato chiarissimo nella sua portata generale e nella definizione dell'indirizzo strategico, è compito degli organi della rappresentanza politica (Parlamento e enti locali) e dello Stato apparato (autorità amministrative, in tutte le sue forme) dare seguito alla volontà popolare.
Dopo il voto dovrebbe cessare ogni contrapposizione politica e ideologica, se è vero che - come insegnano i padri della democrazia - rispetto alle pur legittime opinioni dei singoli, deve prevalere la volontà della maggioranza che si è espressa nelle forme legali definite in Costituzione. E il referendum è una di queste forme.
Dovrebbe essere evidente che mettere in discussione questo principio base della democrazia è assai rischioso: anche i governi espressione della maggioranza parlamentare, nonché le Assemblee legislative elette a suffragio universale fondano la propria legittimazione su queste stesse basi. Nessuno infatti dovrebbe ritenere di poter porre in discussione un governo che gode della fiducia delle Camere o un Parlamento dopo un'elezione democraticamente svolta. Perché allora si mette in discussione la volontà espressa direttamente dalla maggioranza del corpo elettorale in sede di referendum?
Eppure proprio questo sta avvenendo. Il governo e il Parlamento, dopo appena due mesi, hanno reintrodotto una normativa sostanzialmente analoga a quella abrogata con referendum (art. 4 del d.l. 138/2011, aggravando la situazione con l'art. 25 del d.l. 1/2012), gli enti locali stanno procedono speditamente, come se nulla fosse accaduto, alla privatizzazione dei servizi pubblici locali (il caso Acea a Roma e quello delle multiutility del Nord), nessuno (né l'autorità di governo, né l'Autority posta a garanzia del servizio idrico) ritiene di dovere intervenire per eliminare effettivamente la voce relativa alla remunerazione del capitale, che pure è stata espressamente abrogata. Tutti assieme impegnati ad aggirare il risultato del referendum, ritenuto scomodo e contrario alle proprie diverse opzioni d'indirizzo politico-amministrativo.
In questa situazione credo che spetti a ogni cittadino chiedere ai diversi soggetti pubblici di intervenire in difesa del rispetto della volontà popolare. Una battaglia anche per chi ha avversato l'esito del referendum, in primo luogo per chi ha contrastato quest'esito con lealtà e spirito democratico. Lasciare soli i promotori in questa richiesta, sperando che abbiano la peggio per far rivivere quel che la maggioranza del corpo elettorale ha voluto cancellare, sarebbe veramente miope. Oggi è la nostra comune concezione di democrazia che è in gioco, al di là di ogni ideologia di parte.

 

da il manifesto

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