Il default dell’università pubblica.
Una “valutazione” delle politiche di Profumo, Gelmini e dei loro chiarissimi predecessori
di Eleonora Forenza
pubblicato il 4 febbraio 2013 su Liberazione.it
Sono tempi in cui a proposito di università si parla molto di valutazione. Solo pochi giorni fa, il ministro Profumo annunciava pomposamente che, attraverso l’Anvur (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca), anche per l’università arriverà – citiamo testualmente dal sito del MIUR - «il "bollino di qualità"
per atenei, facoltà e corsi di laurea». Che nella seconda Repubblica (delle banane – verrebbe da dire, a proposito di bollini e non solo) la funzione costituzionale dell’università fosse stravolta anche attraverso l’ideologia della competizione (ormai di Stato) e la retorica ministeriale della valutazione, del merito e delle eccellenze è cosa da tempo nota a chi negli atenei studia, ricerca, insegna con passione ogni giorno. E che la attuale politica di valutazione - con annessi strapoteri dell’Anvur - sia il grimaldello ideologico (sotto il profilo scientifico molto criticabile e criticata: basti vedere il lavoro di demistificazione prodotto dalla redazione di ROARS) attraverso cui si inibisce la libertà di ricerca e si punta a una gerarchizzazione di atenei e discipline è ampiamente evidente, come testimoniano i criteri adottati per l’abilitazione nazionale di professori associati e ordinari.
Sarà allora forse legittimo, se non doveroso, provare a fare una valutazione dei risultati prodotti dalle politiche di questi ultimi anni sull’università pubblica. Una fotografia utile a tal fine l’ha di recente scattata il CUN (Consiglio Universitario Nazionale), fornendoci alcuni dati drammatici che dovrebbero far riflettere. In dieci anni il numero degli studenti immatricolati è calato di 58000 unità (- 17 %); l’Italia è al 34° posto (su 36) per numero di laureati nella classifica dei paesi OCSE; solo il 75% per cento degli studenti idonei alla borsa di studio ne diventa realmente titolare. Questi sono i risultati prodotti dal progressivo taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) dell’università: una negazione di fatto del diritto allo studio. Insieme al serissimo rischio di default per moltissimi atenei, aggravato dall’austero governo dei Professori, che ha ulteriormente tagliato il FFO (- 300 milioni) nella Spending review. Ad essi vanno aggiunte le conseguenze del blocco del turn-over: dal 2006 al 2012 il numero dei docenti si è ridotto del 22%, peggiorando ulteriormente il rapporto docente/numero di studenti (media OCSE 15,5; Italia 18,7) e determinando la cancellazione di numerosi corsi di studio.
Dunque, non si tratta più solo di contrastare il processo di progressiva precarizzazione del lavoro nell’università, istituzionalizzato dall’abolizione del ruolo di ricercatore determinato dalla riforma Gelmini; la desolazione della ricerca ridotta alla questua di finanziamenti e delle vite e delle intelligenze di giovani ricercatori a cui viene inibita la libertà di ricerca e per cui perfino la precarietà rischia di diventare un lusso insostenibile. Dobbiamo parlare di una e vera e propria espulsione di massa – di studenti, ricercatori, docenti, saperi, conoscenze - dall’università, il cui ruolo pubblico viene progressivamente ridotto e marginalizzato.
Verrebbe da chiedersi – per fare un paragone – come potrebbe essere valutato un professore che caccia i suoi studenti, un filologo che taglia il manoscritto su cui sta lavorando ecc … ossia come dovremmo valutare la continuità nella distruzione delle politiche Gelmini-Profumo, e – per dirla tutta - dei loro chiarissimi predecessori (il 3+2, le riforme a costo zero dei vari Berlinguer e Zecchino). Ma la domanda da porsi è forse un’altra, più radicale. E riguarda la metamorfosi strutturale, la mutazione antropologica, la ristrutturazione della morfologia dei poteri (della governance, direbbero i tecnici) che ha subito in questi anni l’università pubblica fino a rendere questa bellissima parola – pubblico – quasi illusoria se riferita alla situazione attuale dell’università italiana.
Concediamoci allora un piccolo diritto al lusso: ricordare l’etimo della parola pubblico, quella che Berlinguer per primo (eh sì, perché il centro-sinistra è stato davvero avanguardia nella distruzione del pubblico) volle smettere di affiancare alla parola istruzione. Pubblico - ci ricorda il dizionario etimologico – è la contrazione di populicus e significa “che appartiene a tutto il popolo; che concerne tutto il popolo; quindi comune a tutti; sentito da tutti; noto a tutti. Pubblico è l’opposto di privato”. L’università deve (dovrebbe) essere pubblica – così è pensata dalla Costituzione, come un presidio di democrazia – perché il sapere è un bene comune, cioè nessuno ne ha la proprietà.
La domanda da porsi allora è cosa resta di realmente pubblico di questa università dopo venti anni di ristrutturazione neoliberista? Dopo che l’ideologia del privato, della competizione, della recinzione è diventata norma (le maledette riforme), si è fatta Stato? Dopo la mutazione antropologica di studenti costretti a ragionare in crediti; dopo l’esortazione normativa a introiettare la logica della competizione (l’opposto della cooperazione necessaria alla ricerca) rivolta ai singoli ricercatori così come agli atenei; dopo i programmi d’esame ridotti a dispense per attirare studenti ed essere promossi dal Nucleo di Valutazione di Ateneo; dopo la riscrittura degli Statuti degli Atenei, l’immissione dei privati nell’università, la definizione di una “governance” in senso privatistico ed oligarchico?
Cosa resta? Resta ciò che resiste. Nel ventennio inglorioso furono in pochi i professori a resistere all’ideologia che si faceva Stato. Oggi a resistere all’ideologia della competizione che si fa Stato sono le migliaia di studenti con i book-block che si oppongono ai tagli e si sono opposti alle controriforme; i ricercatori che sono saliti sui tetti contro la riforma Gelmini; il lavoro gratuito delle precarie e dei precari che permette all’università di funzionare; i docenti che provano a decostruire la falsità della valutazione: ossia la passione e l’intelligenza di chi non sta difendendo questo pubblico, ma vuole rifondare l’università, costruire con la partecipazione di chi ci studia e ci lavora una università realmente pubblica perché il sapere sia davvero un bene comune.
È questo l’intento che ha unito i movimenti di questi ultimi anni, nella pluralità delle voci e dei soggetti che si sono mobilitati. Dal movimento degli studenti e dalla “indisponibilità dei ricercatori, per arrivare alle proposte della rete “università bene comune”, fino alle più recenti proposte avanzate da “l’università che vogliamo” e dal tavolo intersindacale, per citare solo alcuni esempi. Tutto rimasto inascoltato in anni di riforme fatte contro l’università. Le uniche risposte sono state manganellate e lacrimogeni sugli studenti, accusati di essere choosy, sfigati e aspiranti fannulloni. Tutto mistificato a suon di editoriali e proclami dei vari Perotti e Giavazzi in una falsa dialettica fra innovazione e conservazione.
Ma se da più di venti anni l’università è potuta diventare oggetto di devastanti riforme è anche – lo ricordava recentemente Angelo d’Orsi in un articolo sul manifesto a mio avviso pregno di verità – perché c’è stata “una maggioranza silenziosa”, perché spesso chi avrebbe potuto e dovuto ricordare il carattere “für ewig” del lavoro di ricerca si è maldestramente piegato a mostrarne una “spendibilità”, o ancora perché nel collasso generale del sistema si è sovente pensato unicamente a salvare se stessi.
Una prima inderogabile necessità è allora che sul futuro dell’università, di questo ganglio fondamentale per la qualità della nostra democrazia e anche dello sviluppo (a meno che non si voglia destinare l’Italia a “competere” sulla sola riduzione del costo del lavoro), si apra e si sviluppi un dibattito pubblico di massa: pubblico, perché riguarda tutti e non solo gli addetti ai lavori. E invece di università si parla poco, pochissimo, perfino in campagna elettorale. Eppure furono in molti gli esponenti politici a sfilare sul tetto della Facoltà di Architettura a Roma, a solidarizzare con i ricercatori : in sintesi, a far intendere che anche la riforma Gelmini era una “porcata” e che – una volta “al governo “– l’avrebbero cambiata.
Oggi invece esponenti dell’“Italia Bene Comune” parlano di Profumo come se non avessero sostenuto il Governo Monti, ci spiegano che il sistema universitario è stanco di riforme e che quindi la riforma Gelmini ce la dobbiamo tenere. È peraltro difficile capire come chi si impegna a sostenere il Fiscal Compact e gli altri trattati europei marcati austerity possa realmente impegnarsi in un rifinanziamento dell’università.
Pensiamo invece che il futuro dell’università pubblica passi necessariamente per un cambiamento radicale. In primo luogo da un processo di rifondazione pensato dai soggetti che nell’università lavorano, ricercano, studiano: dunque, da un radicale cambiamento nel metodo. È inoltre impossibile immaginare una nuova centralità dell’università come luogo di formazione alla cittadinanza, del sapere critico, dello sviluppo, della ricerca umanistica e scientifica senza investire risorse: occorre rifinanziare il Fondo di Finanziamento ordinario, avviare una fase di reclutamento straordinario, garantire la piena esigibilità del diritto allo studio.
E se vogliamo davvero rilanciare l’università pubblica fondata sul sapere bene comune dobbiamo abrogare la riforma Gelmini e scrivere un’altra vera riforma: non solo dunque difendere il valore legale del titolo di studio, valorizzare il dottorato (eliminando quelli senza borsa), combattere precarietà e schiavitù negli atenei, ripensare e democratizzare l’autogoverno del sistema, definire un’altra idea di valutazione. Non possiamo muoverci rimanendo dentro una cornice di grottesca americanizzazione. No. Occorre una vera riforma. Che passa non solo attraverso atti legislativi, ma anche attraverso gesti di disobbedienza quotidiana a questo scempio, attraverso la mobilitazione, la partecipazione, la discussione pubblica.
L’università pubblica ha bisogno anche di una riforma intellettuale e morale. Di una rivoluzione civile.