COMUNICATO STAMPA

ISTRUZIONE, FORENZA (RC): MONTI FA PROPAGANDA, IL SUO GOVERNO HA FATTO SOLO DANNI
Roma, 12 feb - "La propaganda di Mario Monti, che ha dichiarato di voler investire 8 miliardi nell'istruzione, è davvero in contrasto con quello che è stato l'operato del suo governo e del ministro Profumo. In continuità con Berlusconi e con la Gelmini, Monti ha aggravato i tagli sul sistema d'istruzione (300 milioni tagliati all'università nella sola spending review), portando a rischio default moltissimi atenei. A camere sciolte, Profumo continua a elaborare decreti contro il diritto allo studio, come quello giustamente contestato dagli studenti perché restringe ulteriormente la platea di accesso alle borse di studio. Rivoluzione Civile vuole portare l'obbligo scolastico a 18 anni: Monti invece vuole una scuola di serie A per l'élite e una scuola di serie B che prepari la manodopera a basso costo. Noi vogliamo invertire realmente la tendenza sull'istruzione pubblica: investire risorse su scuola e università, garantire pienamente il diritto allo studio, avviare un piano serio sul reclutamento". Così Eleonora Forenza, responsabile Università del Prc, candidata di Rivoluzione civile.
 

COMUNICATO STAMPA

La fotografia diffusa in questi giorni dal CUN (Consiglio Nazionale Universitario) ci parla di una situazione davvero drammatica: in dieci anni gli studenti immatricolati negli atenei italiani sono scesi da 338.482 dell'anno accademico 2003/2004 a 280.144 del 2011/2012, il 17% in meno (pari a circa 58000 studenti), i docenti sono diminuiti anche più rapidamente (22% in meno negli ultimi sei anni), mentre il rapporto medio tra studenti e docenti continua ad essere il più alto d'Europa. A questi dati si devono aggiungere quelli già diffusi dall'OCSE, secondo i quali Italia è penultima per spesa destinata all’istruzione pubblica (4,7% del Pil contro un 5,8 di media europea), con una media dei laureati tra i 25 e i 60 anni del 15% contro una media europea del 31%. Questi dati naturalmente non arrivano all'improvviso e non sono frutto di fenomeni fisiologici: sono la diretta conseguenza di politiche fallimentari più che decennali, alle quali Gelmini prima e Profumo poi (con la sua capacità “tecnica”) hanno dato la spinta definitiva. I tagli incondizionati al FFO, l'aumento della contribuzione studentesca, la diminuzione del fondo per le borse di studio, l'aumento dei costi dei servizi, la proliferazione dei numeri chiusi, l'assenza di un qualsiasi sostegno al reddito per i soggetti in formazione: tutti provvedimenti che vanno verso un'espulsione di massa dall'università ed una ridefinizione del sistema universitario, rendendolo classista ed elitario. In questo contesto il governo Monti, in carica solo per gli affari correnti, si prepara a dare un ultimo colpo di coda con il nuovo decreto ministeriale “Determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e dei requisiti di eleggibilità per il diritto allo studio universitario ai sensi del decreto legislativo 29 marzo 2012, n. 68”, che la conferenza Stato-Regioni esaminerà giovedì 7 febbraio. 

Il decreto rimodula i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), ovvero i criteri attraverso i quali gli studenti e le studentesse possono accedere a borse di studio, alloggi ed altri servizi, determinando di fatto una restrizione delle possibilità, per chi appartiene a famiglie con redditi medio-bassi, di accedere all’università. Tra le proposte contenute nel decreto riteniamo la differenziazione della soglia minima dell'ISEE tra Nord (20000), Centro (17000) e Sud (14000) discriminante e lesiva dell'universalità del diritto allo studio su tutto il territorio nazionale; questa rimodulazione va ad aggiungersi alla ridefinizione dei criteri dell'ISEE già messa in atto dal governo in carica, e ai tagli alle borse, determinando una espulsione di diverse centinaia di studenti dalla fruizione di una borsa di studio. E' bene ricordare che gli “idonei non beneficiari” in Italia erano 45mila nel 2010-2011 con un valore Isee minimo pari a 17 mila euro in tutte le regioni. 

Se a tutto questo si aggiunge che, nel decreto, si rendono più rigidi i parametri di accesso e di conservazione della borsa (gli studenti potranno iscriversi alla laurea triennale o magistrale a ciclo unico entro e non oltre i 25 anni di età e alla laurea magistrale entro e non oltre i 32 anni, mentre i CFU necessari vengono aumentati di 15 l'anno e scompaiono i "punti bonus", crediti aggiuntivi dei quali lo studente poteva usufruire dando una maggior flessibilità nel raggiungere le soglie per il mantenimento della borsa ) si vede bene come più che giudicare un presunto “merito” la volontà del governo sia semplicemente quella di ridurre ulteriormente la platea degli aventi diritto. 
Per tutti questi motivi i Giovani Comunisti si uniscono agli studenti nel chiedere che la Regione Toscana si impegni in conferenza stato-regioni per scongiurare quest'ultimo attacco all'università. Ribadiamo inoltre la necessità di costruire nel nostro paese un'alternativa vera a questo ventennio di dissoluzione della scuola e dell'università pubbliche e di massa, ritornando a investire in ricerca, abrogando la legge Gelmini, e costruendo una legge quadro nazionale che garantisca davvero la piena cittadinanza studentesca.

Luca Panicucci - Responsabile Regionale Scuola e Università - Giovani Comunisti Toscana

Il default dell’università pubblica.

Una “valutazione” delle politiche di Profumo, Gelmini e dei loro chiarissimi predecessori

di Eleonora Forenza

 

pubblicato il 4 febbraio 2013 su Liberazione.it

Sono tempi in cui a proposito di università si parla molto di valutazione. Solo pochi giorni fa, il ministro Profumo annunciava pomposamente che, attraverso l’Anvur (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca), anche per l’università arriverà – citiamo testualmente dal sito del MIUR - «il "bollino di qualità" 
per atenei, facoltà e corsi di laurea». Che nella seconda Repubblica (delle banane – verrebbe da dire, a proposito di bollini e non solo) la funzione costituzionale dell’università fosse stravolta anche attraverso l’ideologia della competizione (ormai di Stato) e la retorica ministeriale della valutazione, del merito e delle eccellenze è cosa da tempo nota a chi negli atenei studia, ricerca, insegna con passione ogni giorno. E che la attuale politica di valutazione - con annessi strapoteri dell’Anvur - sia il grimaldello ideologico (sotto il profilo scientifico molto criticabile e criticata: basti vedere il lavoro di demistificazione prodotto dalla redazione di ROARS)  attraverso cui si inibisce la libertà di ricerca e si punta a una gerarchizzazione di atenei e discipline è ampiamente evidente, come testimoniano i criteri adottati per l’abilitazione nazionale di professori associati e ordinari.

Sarà allora forse legittimo, se non doveroso, provare a fare una valutazione dei risultati prodotti dalle politiche di questi ultimi anni sull’università pubblica. Una fotografia utile a tal fine l’ha di recente scattata il CUN (Consiglio Universitario Nazionale), fornendoci alcuni dati drammatici che dovrebbero far riflettere. In dieci anni il numero degli studenti immatricolati è calato di 58000 unità (- 17 %); l’Italia è al 34° posto (su 36) per numero di laureati nella classifica dei paesi OCSE; solo il 75% per cento degli studenti idonei alla borsa di studio ne diventa realmente titolare. Questi sono i risultati prodotti dal progressivo taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) dell’università: una negazione di fatto del diritto allo studio. Insieme al serissimo rischio di default per moltissimi atenei, aggravato dall’austero governo dei Professori, che ha ulteriormente tagliato il FFO (- 300 milioni) nella Spending review.  Ad essi vanno aggiunte le conseguenze del blocco del turn-over: dal 2006 al 2012 il numero dei docenti si è ridotto del 22%, peggiorando ulteriormente il rapporto docente/numero di studenti (media OCSE 15,5; Italia 18,7) e determinando la cancellazione di numerosi corsi di studio.

Dunque, non si tratta più solo di contrastare il processo di progressiva precarizzazione del lavoro nell’università, istituzionalizzato dall’abolizione del ruolo di ricercatore determinato dalla riforma Gelmini; la desolazione della ricerca ridotta alla questua di finanziamenti e delle vite e delle intelligenze di giovani ricercatori a cui viene inibita la libertà di ricerca e per cui perfino la precarietà rischia di diventare un lusso insostenibile. Dobbiamo parlare di una e vera e propria espulsione di massa – di studenti, ricercatori, docenti, saperi, conoscenze - dall’università, il cui ruolo pubblico viene progressivamente ridotto e marginalizzato.   

Verrebbe da chiedersi – per fare un paragone – come potrebbe essere valutato un professore che caccia i suoi studenti, un filologo che taglia il manoscritto su cui sta lavorando ecc … ossia come dovremmo valutare   la continuità nella distruzione delle politiche Gelmini-Profumo, e – per dirla tutta - dei loro chiarissimi predecessori (il 3+2, le riforme a costo zero dei vari Berlinguer e Zecchino). Ma la domanda da porsi è forse un’altra, più radicale. E riguarda la metamorfosi strutturale, la mutazione antropologica, la ristrutturazione della morfologia dei poteri (della governance,  direbbero i tecnici) che ha subito in questi anni l’università pubblica fino a rendere questa bellissima parola – pubblico – quasi illusoria se riferita alla situazione attuale dell’università italiana.

Concediamoci allora un piccolo diritto al lusso: ricordare l’etimo della parola pubblico, quella che Berlinguer per primo (eh sì, perché il centro-sinistra è stato davvero avanguardia nella distruzione del pubblico) volle smettere di affiancare alla parola istruzione. Pubblico - ci ricorda il dizionario etimologico – è la contrazione di populicus e significa “che appartiene a tutto il popolo; che concerne tutto il popolo; quindi comune a tutti; sentito da tutti; noto a tutti. Pubblico è l’opposto di privato”. L’università deve (dovrebbe) essere  pubblica – così è pensata dalla Costituzione, come un presidio di democrazia – perché il sapere è un bene comune, cioè nessuno ne ha la proprietà.

La domanda da porsi allora è cosa resta di realmente pubblico di questa università dopo venti anni di ristrutturazione neoliberista? Dopo che l’ideologia del privato, della competizione, della recinzione è diventata norma (le maledette riforme), si è fatta Stato? Dopo la mutazione antropologica di studenti costretti a ragionare in crediti; dopo l’esortazione normativa a introiettare la logica della competizione (l’opposto della cooperazione necessaria alla ricerca) rivolta ai singoli ricercatori così come agli atenei; dopo i programmi d’esame ridotti a dispense per attirare studenti ed essere promossi dal Nucleo di Valutazione di Ateneo; dopo la riscrittura degli Statuti degli Atenei, l’immissione dei privati nell’università, la definizione di una “governance”  in senso privatistico ed oligarchico? 

Cosa resta? Resta ciò che resiste. Nel ventennio inglorioso furono in pochi i professori a resistere all’ideologia che si faceva Stato. Oggi a resistere all’ideologia della competizione che si fa Stato sono le migliaia di studenti con i book-block che si oppongono ai tagli e si sono opposti alle controriforme; i ricercatori che sono saliti sui tetti contro la riforma Gelmini; il lavoro gratuito delle precarie e dei precari che permette all’università di funzionare; i docenti che provano a decostruire la falsità della valutazione: ossia la passione e l’intelligenza di chi non sta difendendo questo pubblico, ma vuole rifondare l’università, costruire con la partecipazione di chi ci studia e ci lavora una università realmente pubblica perché il sapere sia davvero un bene comune. 

È questo l’intento che ha unito i movimenti di questi ultimi anni, nella pluralità delle voci e dei soggetti che si sono mobilitati. Dal movimento degli studenti e dalla “indisponibilità dei ricercatori, per arrivare alle proposte della rete “università bene comune”, fino alle più recenti proposte avanzate da “l’università che vogliamo” e dal tavolo intersindacale, per citare solo alcuni esempi. Tutto rimasto inascoltato in anni di riforme fatte contro l’università. Le uniche risposte sono state manganellate e lacrimogeni sugli studenti, accusati di essere choosy, sfigati e aspiranti  fannulloni. Tutto mistificato a suon di editoriali e proclami dei vari Perotti e Giavazzi in una falsa dialettica fra innovazione e conservazione.

Ma se da più di venti anni l’università è potuta diventare oggetto di devastanti riforme  è anche – lo ricordava recentemente Angelo d’Orsi in un  articolo sul manifesto a mio avviso pregno di verità – perché c’è stata “una maggioranza silenziosa”, perché spesso chi avrebbe potuto e dovuto ricordare il carattere “für ewig” del lavoro di ricerca si è maldestramente piegato a mostrarne una “spendibilità”, o ancora perché nel collasso generale del sistema si è sovente pensato unicamente a salvare se stessi.

Una prima inderogabile necessità è allora che sul futuro dell’università, di questo ganglio fondamentale per la qualità della nostra democrazia e anche dello sviluppo (a meno che non si voglia destinare l’Italia a “competere” sulla sola riduzione del costo del lavoro), si apra e si sviluppi un dibattito pubblico di massa: pubblico, perché riguarda tutti e non solo gli addetti ai lavori. E invece di università si parla poco, pochissimo, perfino in campagna elettorale. Eppure furono in molti gli esponenti politici a sfilare sul tetto della Facoltà di Architettura a Roma, a solidarizzare con i ricercatori : in sintesi, a far intendere che anche la riforma Gelmini era una “porcata” e che – una volta “al governo “– l’avrebbero cambiata.

Oggi invece esponenti dell’“Italia Bene Comune” parlano di Profumo come se non avessero sostenuto il Governo Monti, ci spiegano che il sistema universitario è stanco di riforme e che quindi la riforma Gelmini ce la dobbiamo tenere. È peraltro difficile capire come chi si impegna a sostenere il Fiscal Compact e gli altri trattati europei marcati austerity possa realmente impegnarsi in un rifinanziamento dell’università.

Pensiamo invece che il futuro dell’università pubblica passi necessariamente per un cambiamento radicale.   In primo luogo da un processo di rifondazione pensato dai soggetti che nell’università lavorano, ricercano, studiano: dunque, da un radicale cambiamento nel metodo. È inoltre impossibile immaginare una nuova centralità dell’università come luogo di formazione alla cittadinanza, del sapere critico, dello sviluppo, della ricerca umanistica e scientifica senza investire risorse: occorre rifinanziare il Fondo di Finanziamento ordinario, avviare una fase di reclutamento straordinario, garantire la piena esigibilità del diritto allo studio.

E se vogliamo davvero rilanciare l’università pubblica fondata sul sapere bene comune dobbiamo abrogare la riforma Gelmini e scrivere un’altra vera riforma: non solo dunque difendere il valore legale del titolo di studio, valorizzare il dottorato (eliminando quelli senza borsa), combattere precarietà e schiavitù negli atenei, ripensare e democratizzare l’autogoverno del sistema, definire un’altra idea di valutazione. Non possiamo muoverci rimanendo dentro una cornice di grottesca americanizzazione. No. Occorre una vera riforma. Che passa non solo attraverso atti legislativi, ma anche attraverso gesti di disobbedienza quotidiana a questo scempio, attraverso la mobilitazione, la partecipazione, la discussione pubblica.

L’università pubblica ha bisogno anche di una riforma intellettuale e morale. Di una rivoluzione civile.



COMUNICATO STAMPA

UNIVERSITà - PRC: «GELMINI-TREMONTI E IL GOVERNO DEI PROFESSORI HANNO DISTRUTTO L'UNIVERSITà PUBBLICA»
Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, ed Eleonora Forenza, responsabile Università di Rifondazione comunista, candidati di Rivoluzione civile, dichiarano:
«I dati resi noti oggi dal Consiglio Universitario Nazionale fotografano il processo di distruzione dell’università pubblica operato da Gelmini e Profumo e dai rispettivi governi. E' il risultato del costante taglio del Fondo di finanziamento ordinario dell’università: 58000 immatricolati in meno in 5 anni sono la conseguenza di una politica di tagli, del mancato finanziamento delle borse di studio e del diritto allo studio. Il blocco delle assunzioni fa calare anche il numero di ricercatori e professori. Tutto questo mentre il numero dei laureati in Italia rimane ampiamente al di sotto della media Ocse. A questa situazione Profumo e il "governo dei professori" hanno risposto solo con ulteriori tagli e con un processo di definizione di atenei di serie A e serie B attraverso l’ANVUR, l'Agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca. Rivoluzione civile propone una radicale inversione di tendenza: investire risorse sull’università pubblica, abrogare la riforma Gelmini, garantire il diritto allo studio».

COMUNICATO STAMPA

ERASMUS - PRC: ""TECNICI" NON TROVANO SOLUZIONE "TECNICA" PER GARANTIRE DIRITTO FONDAMENTALE DEMOCRAZIA"

Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, ed Eleonora Forenza, responsabile università di Rifondazione comunista, dichiarano:

"Il Consiglio dei Ministri nega la possibilità di voto a 25mila studenti Erasmus: è vergognoso. Il governo "dei tecnici" non è riuscito a trovare una soluzione tecnica per garantire l'esercizio di un diritto fondamentale a chi è all'estero per ragioni di studio. L'ennesima riprova di quanto il governo Monti sia nemico delle giovani generazioni e di come non rispetti la democrazia".

 

 

22 gennaio 2013

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