da Keynesblog.it

Ieri si è conclusa la trattativa tra governo e parti sociali in merito alla riforma del mercato del lavoro e in particolare all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Al di là della forma della modifica, oggetto più volte di rimaneggiamenti, occorre analizzare le motivazioni alla base della richiesta, da parte delle imprese, di maggiore flessibilità in uscita, spesso accompagnata da una campagna contro il cosiddetto "posto fisso", tesa a far passare il messaggio che nel nostro paese sia difficile o addirittura impossibile licenziare (affermazione senza riscontri empirici, data la crescente disoccupazione).

Gli effetti positivi di una maggiore flessibilità in uscita possono essere così riassunti:

1) favorire il trasferimento della forza lavoro da settori in crisi e produzioni obsolete a settori e produzione nei quali vi è scarsità di manodopera disponibile;

2) rendere più semplice per la singola impresa rispondere a fasi avverse del mercato;

Riguardo il punto 1) il ragionamento avrebbe senso se fossimo in una situazione di quasi piena occupazione. In realtà però il dato della disoccupazione ci dice che vi è un eccesso di manopodera inutilizzata e alla quale settori e produzioni in crescita possono eventualmente attingere. E, in ogni caso, la strategia più idonea in tal caso sarebbe favorire la mobilità attraverso la formazione e il trasferimento concertato e indolore dei lavoratori tra settori produttivi e sostenere la riconversione industriale ove possibile.

Riguardo sia il punto 1) che il punto 2) la legislazione del lavoro italiana già prevede gli strumenti necessari a rispondere al calo di domanda e alla conseguente necessità di ridurre il personale in esubero.

Inoltre occorre considerare che una parte consistente della forza lavoro italiana è già priva delle tutele dell'articolo 18: lavoratori di piccole imprese, precari, lavoratori con partita IVA.

Scartate queste ipotesi, poiché non rispondenti al caso italiano, non rimane che analizzare l'effetto collaterale della maggiore flessibilità in uscita: la riduzione delle richieste salariali da parte dei lavoratori, al fine di contenere le retribuzioni e, per questa via, facilitare l'uscita dalla crisi economica.

Questo ragionamento ha un preciso riferimento teorico alle spalle risalente agli anni '30, quando l'economista inglese Arthur Pigou attribuì la mancata ripresa e la disoccupazione permanente alle resistenze sindacali rispetto alla riduzione dei salari. Senza tale riduzione, era il ragionamento, le imprese non possono abbattere i costi, essere più competitive, proponendo prezzi minori sul mercato, e quindi tornare a vendere più merci, riassorbendo così la disoccupazione.

E' a questa idea che Keynes fa le pulci nel capitolo 19 della Teoria generale. L'occupazione dipende dalla produzione e la produzione dalla domanda. L'effetto più probabile di una riduzione salariale sarà il calo dei consumi e quindi della domanda, con risultati che potrebbero addirittura peggiorare la situazione. Siamo cioè di fronte ad una fallacia di composizione: ciò che potrebbe essere positivo per una singola azienda non lo è necessariamente se si considera l'aggregato.

Ma – si può obiettare – potremmo puntare, come ha fatto la Germania, sulle esportazioni: anche se gli italiani con i loro salari decurtati comprassero di meno, potremmo vendere a qualcun altro. Questo equivarrebbe ad una svalutazione monetaria fatta dai sindacati e dalle imprese, necessaria nel momento in cui, a causa dell'Euro, non possiamo realmente svalutare la nostra moneta.

Il problema di questa strategia è però duplice: 1) la crisi è globale e i mercati esteri in forte espansione su cui puntare sono ben pochi; 2) come abbiamo più volte sottolineato, il problema del costo del lavoro in Italia non è legato ai salari, che anzi sono bassi rispetto ai paesi più avanzati dell'Unione europea, ma alla specializzazione produttiva in merci e servizi a basso valore aggiunto e alla inefficienza del capitale frammentato in una moltitudine di piccolissime imprese, con "campioni nazionali" in via di scomparsa.

Il contenimento salariale, ancorché per via indiretta, ha ben poche possibilità di successo. Nel breve periodo è invece necessaria una spinta alla domanda che non può che venire dalla spesa pubblica. Nel lungo periodo non basterà qualche magro stimolo, qualche sporadica agevolazione fiscale o il pur auspicato abbassamento del tasso d'interesse. La riforma strutturale del capitalismo italiano dovrebbe essere impressa da una intelligente politica di investimento promossa dallo Stato al fine di modernizzare il tessuto produttivo nazionale:

"Vorrei vedere che lo Stato – che è in condizione di calcolare l'efficienza marginale di beni capitali in base a considerazioni a lunga portata e in vista del vantaggio sociale generale – si assumesse una sempre maggiore responsabilità nell'organizzare direttamente l'investimento; poiché sembra probabile che le fluttuazioni della valutazione del mercato sull'efficienza marginale di diversi tipi di capitale [...] siano troppo ampie per poter essere compensate da qualsiasi variazione attuabile del tasso d'interesse."

– John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, cap. XII

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