Di Antonio Ferraro

Il Governo Monti ha ufficialmente detto 'no' alla candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020. Un 'no' sofferto che ha lasciato delusi i sostenitori del grande evento, da Alemanno a Zingaretti, che hanno spinto fino all'ultimo perché l'esecutivo si impegnasse a tenere viva la candidatura italiana...

Un 'no' obbligato visto che i costi per Roma 2020, stimati in oltre 8 miliardi di euro, sarebbero dovuti essere garantiti dalle finanze dello Stato nonostante i tentativi da parte dei promotori di dimostrare che gli investimenti del privato avrebbero coperto gran parte dei costi. Inoltre, sul tavolo i sostenitori hanno messo anche la carta dello sviluppo economico e occupazionale che un appuntamento così importante avrebbe potuto incentivare. Ma la storia recente, e anche quella più remota, dimostra che i grandi eventi non solo sono stati caratterizzati da uno sperpero di ingenti risorse pubbliche, ma anche da gestioni clientelari, a volte criminali, ai danni della cittadinanza, dell'ambiente e del paesaggio. A guadagnarci sono stati sempre speculatori e costruttori, amici degli amici che con la complicità dei politici di turno riempivano il grande evento solo di cemento per impianti costosi e inutili. L'ultimo esempio è rappresentato dai mondiali di nuoto del 2009 a Roma, quando si sono costruiti impianti pubblici, alcuni rimasti solo scheletri inutilizzati, e impianti privati in deroga ai piani regolatori e alle leggi di tutela ambientale e paesaggistica, utilizzando anche tanto lavoro nero. Niente per la cittadinanza, niente per lo sport per tutti. «Da Melburne 1956 ad oggi, tranne l'edizione di Atlanta, dopo le Olimpiadi tutte le economie nazionali hanno subito una frenata» ha giustamente ricordato Pietro Mennea, medaglia d'oro olimpica nel 1980 e record mondiale per 17 anni nei 200 metri piani, autore del libro "I costi delle Olimpiadi" (Ed. Delta 3). Mennea parla anche di un altro evento recente, le Olimpiadi invernali di Torino 2006: «Per le finanze pubbliche, Torino 2006 è stato un pozzo senza fondo. Da un budget iniziale di 705milioni di euro la spesa complessiva si è aggirata intorno al miliardo e 700milioni a cui vanno aggiunte le opere connesse (si stima una cifra di circa 2miliardi di euro, ndr)».

Anche per Roma 2020 era previsto lo stesso copione: soldi pubblici gestiti dai privati con il meccanismo perverso del comitato promotore aperto a personaggi della finanza, palazzinari e industriali. L'elenco è lungo, ma basta citare alcuni nomi come quelli di Abete, Caltagirone, Montezemolo, Marcegaglia, Geronzi, Malagò per capire di cosa e di chi stiamo parlando.

Dunque, il punto non è solo dire 'no' perché i soldi non ci sono, come ha fatto il Governo ieri. Ma è rimettere in discussione l'intero modello dei grandi eventi, sostenuto da destra a sinistra, che ha solo fatto danni in Italia per ricominciare a parlare di politiche sportive come politiche di welfare, cioè finalizzate alla promozione dello sport come elemento di inclusione e coesione sociale, di superamento dei disagi, di mantenimento della salute. E per farlo è necessario ripensare anche la progettazione pubblica sull'impiantistica sportiva, che dovrebbe rispondere alle esigenze della cittadinanza, essere a misura dello sport sociale. Basterebbe valorizzare le tante strutture delle scuole pubbliche e costruire, quando servono, solo impianti cosiddetti 'leggeri' e accessibili a tutte/i, comprese le persone con disabilità.

Insomma, c'è bisogno di una nuova cultura sportiva che deve contaminare anche la politica e le istituzioni, spesso più attente a fare gli interessi di pochi privati che della collettività. Lo sport è un diritto di cittadinanza e come tale deve essere fuori dalle logiche di mercato. Ma questa è un'altra storia.

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