di Angela Lamboglia
Un paio settimane fa, il presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker, durante un’audizione al Parlamento europeo, ha parlato della necessità di un “salario sociale minimo legale”. Un’espressione piuttosto ambigua nel mettere insieme il riferimento al minimo salariale, che riguarda solo gli occupati, con quel rimando al sociale che sembrava fare segno a forme di sostegno di più ampio respiro. Pur dentro questa confusione, Juncker ha offerto l’occasione per discutere di quali misure sono necessarie anche in Italia, nel momento in cui la crisi accentua gli effetti di trasformazioni dell’organizzazione del lavoro che sono in atto da anni in tutta Europa e che probabilmente non ci lasceremo alla spalle una volta che la tanto attesa ripresa prima o poi si paleserà. Trasformazioni che impongono di guardare alla disoccupazione come a un fenomeno strutturale e rendono insufficienti – rilevava pochi giorni fa il professor Stefano Rodotà presentando a Roma l’ultimo libro del Basic Income Network Italia sul reddito minimo garantito – gli strumenti tradizionali del welfare, modellati sui lavoratori e pensati per porre rimedio a situazioni transitorie.