di Francesco Bogliacino

L'uscita dal tunnel non c'è stata. Restano i dilemmi del "calabrone" euro, che non poteva volare e molti vogliono continuare a far volare. Alternative di cui valutare le conseguenze politiche, oltre che economiche

Il tanto atteso “sblocco” della situazione europea non c’è stato. Nel presentare la recente decisione di non variare i tassi, il governatore della Bce Mario Draghi ha riconosciuto che la presenza di premi al rischio estremamente elevati per alcuni paesi e la conseguenze segmentazione dei mercati finanziari mina l’efficacia della politica monetaria. Ha altresì affermato che la Bce prenderà in considerazione le misure necessarie per affrontare il problema (leggi, acquisto di bond sul mercato secondario) ma ha anche segnalato che si tratta di direttive che andranno poi concretizzate in un disegno preciso nel prossimo mese. Inoltre ha sottolineato sia il disaccordo tedesco, sia il richiamo al consolidamento fiscale per quanto riguarda i paesi in difficoltà.

Significativa in tal senso l’affermazione in conferenza stampa secondo cui in presenza di insostenibilità fiscale per i paesi delle periferia, l’unica opzione sul campo per attivare un intervento - della Banca Centrale o dei due Fondi di Stabilità – è una richiesta formale del Paese e una accettazione della conditionality che a tale intervento è usualmente associata [1].

Il problema della stabilità dell’euro è tutt’altro che risolto, in sostanza, e alcune domande più di fondo si pongono.

Nel discorso di Londra di Mario Draghi del 26 luglio, che tanto ha fatto esultare i mercati, c'erano un paio di passaggi che a mio avviso non sono stati sufficientemente discussi. Innanzitutto, il presidente della Bce afferma che l’euro ha le caratteristiche di un bumblebee (un calabrone) che riesce a volare, anche se non dovrebbe. In secondo luogo, prima di affermare che farà di tutto per salvare l’euro, vuole rimarcare l’investimento politico fatto nella moneta unica.

Krugman, che è lettore attento, riprende entrambi i punti in un suo recente editoriale sul NY Times. Traducendo in un linguaggio più chiaro, afferma che l’euro è stato un errore (punto 1), ma sostiene che un suo fallimento comporterebbe un colpo all’unificazione politica (punto 2).

È davvero così?

Sulla creazione dell’euro, giacché pensare a un controfattuale (cosa sarebbe successo senza l’euro) a questo livello di aggregazione è francamente complicato, si può dare una risposta dal punto di vista strettamente economico, con riferimento alla definizione di un’area monetaria ottimale. Senza entrare troppo nel tecnico, è oramai palese che le economie dell’area euro mostrino persistenti elementi di diacronia nell’andamento del ciclo e che non abbia quei requisiti di mobilità e flessibilità che sarebbero richiesti in teoria. Detto in altri termini, a fronte di differenze di competitività, eliminata la variabile del cambio come meccanismo di ripristino dell’equilibrio esterno (e inesistente un meccanismo fiscale di compensazione tra aree), non resta che un aggiustamento sul lato dei prezzi (inclusi i salari). I fattori devono essere mobili a sufficienza da andare dove sono più produttivi e i prezzi devono dare i segnali corretti.

I problemi sono due: la mobilità interna del lavoro è molto bassa, visti i costi di aggiustamento molto alti legati a differenze linguistiche, culturali e amministrativo-burocratiche, ma soprattutto, esiste un problema opposto legato ai capitali. Mentre i capitali si sono mossi dal centro alla periferia, come racconta il modello standard, l’afflusso di capitali non ha portato a crescita della produttività nella periferia (promuovendo convergenza nella competitività), ma ha finanziato bolle speculative che hanno poi portato alla crisi [2].

È evidente che i requisiti di mobilità dei fattori si possono anche modificare endogenamente, ma visto il tempo trascorso dalla creazione dell’euro e visti gli orizzonti temporali su cui è necessario risolvere i problemi, si può affermare abbastanza tranquillamente che questa opzione non è sul tavolo in questo momento.

Atteso che in punta di teoria l’euro non era sostenibile, rimane da esplorare il secondo punto.

L’euro va difeso?

Krugman e Draghi dicono di sì, mentre in ambito eterodosso si amplia sempre di più la schiera di chi risponde negativamente [3].

Opererei una distinzione. Se compariamo tra loro “equilibri” economico-istituzionali, in principio una maggiore unione politica è possibile con o senza euro. È possibile pensare a processi di maggiore integrazione su singole materie (si veda quest'articolo di Bruno Frey), così come è possibile pensare a un’unione politica che lasci le monete nazionali come valvola di sfogo in presenza di shock asimmetrici (il già citato articolo di Pitagora). All’opposto, è anche possibile pensare a un’unione politica, con euro, ulteriore centralizzazione dei capitali e che lasci che gli aggiustamenti avvengano sul lato del lavoro - presumibilmente con politiche di redistribuzione e sostanziale mezzogiornificazione della periferia -, oppure con sostanziale convergenza tra aree attraverso aggiustamenti sul lato della produttività - ma viste le differenze di velocità tra i tempi di movimento della finanza e quello di azione di politiche cha agiscono sulle capabilities (capitale umano, conoscenze tecnologiche, capitale organizzativo), mi sembra improbabile senza una qualche forma di controllo sui movimenti del capitale.

Dire che in astratto diverse configurazioni sono possibili è esercizio interessante ma anche poco soddisfacente: da un punto di vista dinamico, bisogna saper chiarire se esiste un sentiero sufficientemente stabile che ci porti dalla situazione presente all’equilibrio finale indicato (in questo caso quello senza euro).

La risposta è a mio avviso negativa, per due ordini di motivi. Innanzitutto c’è un punto politico. In presenza di svalutazioni non si può negare che molte economie della periferia riprenderebbero fiato nel medio termine (un punto senz’altro positivo), ma questo trasferirebbe appoggio nell’opinione pubblica alle forze anti-europee che in questi anni hanno giocato a mettere nello stesso calderone la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea, e il progetto europeo tout court. Molte di queste forze hanno già ottenuto un incremento del loro peso elettorale, e alcune di esse potrebbero essere presto al governo (come potrebbe avvenire in Italia il prossimo anno). Con un significativo spostamento del peso elettorale verso il blocco euroscettico, dubito che poi si possa immaginare un percorso di convergenza politica verso una maggiore integrazione europea.

Il secondo punto è di carattere più economico. Anche se, ripeto, la svalutazione ridarebbe fiato all’economia, a breve termine i costi potrebbero essere molto pesanti. (a) Poiché non è più vero che la maggior parte del debito è detenuto all’interno del paese, una svalutazione generebbe la sanzione di mancato accesso ai mercati finanziari. Anche se quest’ultimo statisticamente si è significativamente ridotto negli ultimi decenni, si tratta comunque di due anni circa [4]. (b) Si innescherebbe una fuga di capitali che indurrebbe a misure drastiche di consolidamento fiscale; (c) un intervento diretto dello Stato nel sistema bancario si renderebbe inevitabile. A fronte di ciò, si configurerebbe una manovra piuttosto pesante, simile a quella del 1992 appunto.

Inoltre, e in parte a causa di tutto ciò, si avrebbe un’altra conseguenza. Se uno osserva i dati sull’andamento dell’indice di Gini per il reddito disponibile netto delle famiglie in Italia, si scopre che esso è rimasto sostanzialmente piatto ad un livello molto alto negli ultimi ventanni circa, non riuscendo a invertire il pesante incremento (cioè la crescita della disuguaglianza) avvenuta con un balzo molto concentrato in occasione della crisi del 1992. Siamo sicuri che a livello sociale questo paese possa affrontare altra disuguaglianza?

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Note:

[1] Vedere http://www.ecb.eu/press/tvservices/webcast/html/webcast_120802.en.html in particolare al minuto 43:43.

[2] Frenkel, R., Rapetti, M. (2009) A developing country view of the current global crisis: what should not be forgotten and what should be done. Cambridge Journal of Economics, 33(4), 685-702, in italiano si veda anche Brancaccio, E. (2008) Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista. Studi Economici, 96(3), 109-128

[3] Vedasi ad esempio: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/La-fine-di-una-moneta-14384, http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/08/articolo/5225/, http://www.emilianobrancaccio.it/2012/07/17/gli-intellettuali-di-sinistra-e-la-crisi-della-zona-euro/

[4] Panizza, U., Sturzenegger, F., Zettelmeyer, J. (2009) The Economics and Law of Sovereign Debt and Default. Journal of Economic Literature, 47(3): 651-698; Richmond, C, Dias, D.A. (2008). “Duration of Capital Market Exclusion: Stylized Facts and Determining Factors.” http://personal.anderson.ucla.edu/christine.richmond/Marketaccess0808.pdf.

 

www.sbilanciamoci.info

 

 

 

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