di Maria R. Calderoni

Freud direbbe che ha l'invidia del pene. Va bene, la cornice è quella tutta delitti e misfatti confezionata facendo man bassa del "Libro nero del comunismo" rinforzato da contributi del calibro di Pansa, Guzzanti, dossier Mitrokhin, e roba del genere. Ma dentro la cornice, quale quadro! Dentro la cornice, il Pci splende! Proprio quello, il "vecchio Pci"!
Si intitola "La linea rossa. Da Gramsci a Bersani. L'anomalia della sinistra italiana" (Mondadori, pag. 417, euro 20) il libro di Fabrizio Cicchitto appena giunto in libreria, e, una volta arrivato all'ultima pagina, il lettore si stropiccia gli occhi: che cos'è, Intervista col vampiro, Attrazione fatale? Hanno forse sbagliato titolo?


Appena infatti si dimentica del "Libro nero del comunismo" (del resto diligentemente studiato), Cicchitto vede rosso e dà sfogo (liberatorio?) ad una sincera quanto insospettabile ammirazione verso quel Nemico che ha nome Pci.
 Non ci credereste, ma avendo letto con attenzione il libro - peraltro frutto di una accurata ricerca e di una abbondante messe (ad hoc) di documenti, citazioni, testimonianze, numerose e plurime fonti - ho puntigliosamente trascritto sull'apposito taccuino aggettivi, parole e frasi dall'autore messi nero su bianco appunto in conto Pci.
Eccoli. Pci. Il più forte partito comunista dell'OccidenteDalla seconda metà degli anni Quaranta in poi, il Pci costruiva e guidava, insieme alla CGIL, i grandi movimenti di massa, quelli degli operai al Nord, quelli dei braccianti e dei contadini per l'occupazione della terra al SudAl momento della "rifondazione" del Pci nel 43-44, Togliatti ebbe la genialità di combinare sul piano politico-culturale il legame di ferro con l'Urss con la strategia fondata sul concetto di egemonia elaborata da Gramsci nei "Quaderni dal carcere". Un'operazione politico-culturale di eccezionale livello e di straordinaria intelligenza. Ciò ha consentito al Pci di inserirsi nella società italiana esercitando gradualmente un peso e un ruolo molto superiore a quello di un "normale" partito di opposizione. Togliatti ha avuto una visione non puramente schematica e ideologica della società italiana, ha nutrito il gusto dell'analisi "differenziata" delle forze politiche e delle forze sociali.
Berlinguer, poi. Un leader, il cui carisma del tutto peculiare affascinava il popolo comunista; e che combinava insieme la sobrietà, la durezza e la nettezza delle posizioni, la riservatezza e una del tutto originale capacità di comunicazione fondata paradossalmente proprio sull'apparente rifiuto di porsi sulla lunghezza d'onda della esibizione mediatica. Berlinguer, il quale esprimeva una posizione che aveva punti di continuità con la strategia togliattiana e che introdusse elementi innovativi sul terreno della politica estera e dei rapporti con l'Urss. Berlinguer che rompeva con la DC e specialmente con Craxi, perché la sua non era una alternativa mitterandiana, ma un'alternativa "comunista" e integralista (scusate se è poco...).
Né manca, pur tra i vituperi d'ordinanza profusi in tutto il libro, una buona parola su Stalin, colui (sostiene Cicchitto) che suggerì a Togliatti il colpo d'ala della svolta di Salerno, cioè colui al quale si deve se l'Italia non precipitò nella guerra civile (sostiene Cicchitto).
Tanto gli piace il Pci-Pci, quanto gli dispiace il post-Pci. Dei cosiddetti "ragazzi di Berlinguer" (D'Alema, Occhetto, Veltroni, Mussi, Folena ecc), non salva praticamente nessuno, ad eccezione (parziale) di D'Alema, non a caso definito <il più togliattiano> del gruppo.
Particolarmente spietato con Occhetto. Dato atto che l'Achille era l'unico vero "movimentista" del gruppo dirigente comunista, il suo "movimentismo" era però privo di una cultura politica "forte". Come è risultato anche dalle sue posizioni successive, egli era ed è fondamentalmente un confusionaio. Quell'Occheeto che era stato "subito" in un momento di emergenza e poi "rifiutato". Così non a caso D'Alema a un certo punto fece fuori Occhetto e la sua "gioiosa macchina da guerra", a nome di larga parte del quadro  dirigente e intermedio  del Pci ricollocatosi nel Pds. Beninteso facendo tesoro di tutti gli errori, le intemperanze comportamentali, le forzature psicologiche, accumulate da Occhetto (che diede le dimissioni nel 1994).
Veltroni, poi. Lui ha dimostrato una fondamentale incapacità di tenuta politica, e ciò aggravato dal fatto che i nuovi dirigenti veltroniani si sono rivelati in molti casi inconsistenti.
E' vero, sto dando di questo libro una versione consapevolmente tendenziosa; e però vi garantisco che esso abbonda di ogni cascame di materiale anticomunista (quello così noto da essere logoro): dalle mani sporche di sangue all'oro di Mosca, dalla Gladio Rossa ai rapporti segreti col Kgb, dallo stalinismo a quell'uso politico della giustizia (Mani pulite inclusa) che è la sua particolare "ossessione". Ma ciò che più di tutto Cicchitto non perdona e non perdonerà mai al Pci è il suo ostinato, pervicace, irriducibile rifiuto a trasformarsi in tempo -e di occasione ve n'é stata più di una - in un bel partito socialdemocratico.
E invece niente. Il Partito comunista italiano era comunista, what a pity!
(che peccato).

 

 

 

 

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