di Linda Santilli

Il punto di partenza è la crisi. Il contesto di riferimento, per circoscrivere il campo, è l’Europa delle banche. La postazione specifica da cui osserviamo, in cui viviamo, è l’Italia del governo che risponde all’Europa delle banche. E l’epoca è quella di un in profonda metamorfosi economica, sociale, perfino antropologica avvenuta in questi anni, e di uno spaesamento conseguente complessivo per non saper più connettere i fili di quanto accade sotto i nostri occhi ed averne conoscenza piena per operare cambiamenti.
Ma qui il nostro punto di partenza sono anche le donne. Vediamo perché.
Sono le donne a pagare il prezzo più alto della crisi economica in atto, ed a subire con maggiore intensità gli effetti delle misure adottate dai governi europei per pareggiare i bilanci ubbidendo  al diktat delle grandi oligarchie finanziarie internazionali.

E l’Italia anche in questa occasione dimostra la sua particolare attitudine nel differenziarsi a ribasso nelle classifiche mondiali che rilevano i tassi di uguaglianza tra i sessi. In casa nostra infatti l’attuale governo in carica su mandato della Banca Centrale Europea, compie la sua missione storica esasperando ulteriormente le discriminazioni già esistenti che riguardano la parte femminile  e che ci parlano di inoccupazione e disoccupazione crescenti, dimissioni in bianco, doppio lavoro, sfruttamento, differenziale retributivo maschile/femminile, precarietà, povertà,  violenza, una situazione che ci colloca come fanalino di coda a livello continentale. I primi passi che ha fatto il governo dei tecnici parlano chiaro. La riforma sulle pensioni potremmo considerarla la legge simbolo di un accanimento contro le donne, legge che infatti la sindacalista della Fiom Barbara Pettine giustamente definisce “profondamente misogina e la peggiore riforma pensionistica esistente in tutta Europa contro le donne!”.
Aumentare l’età pensionabile per le donne appare come una vergogna in sé, oscurando il doppio lavoro,  quello del produrre e del riprodurre che segna da sempre l’esperienza femminile. Parliamo qui di lavoro di cura non pagato e non riconosciuto, non conteggiato nel calcolo del Pil dello Stato, lavoro a gratis che ha reso possibile quel tanto o quel poco che ha funzionato del welfare all’italiana in tempi migliori, e che oggi nel buio della crisi supplisce all’assenza di ogni investimento pubblico. Doppio versante lavorativo dunque, spesso causa principale dei percorsi contributivi lacunosi e intermittenti delle donne, di part time il più delle volte obbligati, di perdita di occupazione alla nascita di un figlio, e di tanto altro ancora che oggi, con il passaggio al sistema contributivo puro pesa come un macigno e si traduce nel fatto che le donne in Italia, invece di essere risarcite, andranno in pensione – quelle che avranno la fortuna di andarci -  a 70 anni, perchè l’economia del nostro sistema non si cura dei bisogni e percorre altre strade.
 Quello che le donne hanno costruito nel loro percorso collettivo in termini di civilizzazione dei rapporti tra i generi rappresenta un intralcio per i tecnici fautori della competitività e le loro misure anticrisi, anche se esse si tingono di crismi paritari al punto che la ministra Fornero ha sbandierato le sue riforme come utili e vantaggiose soprattutto per le donne.  E’ un imbroglio. Come è un imbroglio la parificazione forzata all’europea che l’Ue invoca.
Nulla di positivo è stato fatto in questi mesi di propaganda forzata, men che meno per le donne.
 Come si fa a rendere pari “in uscita” ciò che nella vita di uomini e donne è stato asimmetrico e differente?
Se quello dell’inoccupazione femminile in Italia è un fenomeno allarmante, visto che le occupate risultano essere solo il 46% della totalità delle  donne, come non vedere che tutte le misure adottate, compreso lo svuotamento dell’articolo 18, non faranno che dilatare ulteriormente questo dato?  
Come si può pensare di riformare il mercato del lavoro incentivando le aziende ad assumere le donne,  come richiesto appunto dall’Ue per tamponare lo scandalo di casa nostra, senza porre però alcun vincolo sulla tipologia contrattuale adottata?
E come si fa a spazzare via in un sol colpo, dall’alto di chi vanta competenze accademiche e sventola curricula  prestigiosi,  sia la vecchia legge sulle dimissioni in bianco,  che qualche tutela pure la dava, sia quella sui congedi parentali?
Eppure è ciò che è accaduto. Il governo ha messo mano anche su quel poco che resta di ciò che le donne avevano ottenuto in termini di diritti contro la muraglia di politiche indifferenti, anzi a loro ostili. La  cosiddetta legge sulla conciliazione (legge 53 del 2000) seppur entro i grossi limiti di una ossatura familista, fu almeno il tentativo di riconoscere il doppio versante lavorativo delle donne, chiamando in causa il ruolo dello Stato perché come nel resto d’Europa facesse la sua parte. Su questa legge viene messa la croce e si sceglie la strada opposta.  Lo Stato, volendo fare cassa su tutto e dimenticando i suoi debiti verso le donne,   monetizza oggi anche il diritto ai congedi con  il cosiddetto “voucher per baby sitter”, assurdo incentivo economico con cui pagare un servizio privato purchè si torni a lavorare in azienda o dove sia il più in fretta possibile dopo il parto. Ancora una volta il mercato ha la meglio. C’è qualcosa di violento e insieme di ottuso in queste misure, perché  il mantra sulla famiglia, sul ruolo materno nell’accudimento della prole entro la dimensione domestica e via di questo passo, che come un disco rotto alimenta gli immaginari maschili, e non solo, del governo dell’austerity, è appunto solo un mantra, solo una litania ed una esternazione, dietro cui con cinica spregiudicatezza e doppia morale si procede, costi quel che costi, a ridisegnare un mondo in cui affetti, desideri, relazioni, la vita intera si vogliono al servizio del mercato. Ed in cui alle donne verrà preclusa di fatto, come sta accadendo,  la possibilità di diventare madri nel caso volessero.  
La femminilizzazione come inclusione
 Proprio dentro questo scenario pieno di drammi di donne e uomini in rottamazione,  si verifica il contraddittorio doppio movimento di inglobare le donne nel mercato come merce privilegiata e disponibile al cannibalismo capitalista da una parte, e dall’altra  di espellerle per prime “in quanto donne”, cioè proprio in virtù del loro corpo riproduttivo quando esso si sottrae ai dispositivi di controllo e contrattacca. Il mercato le ingloba nel suo flusso che sconfina in tutti i versanti dell’esistenza, ma come non ammette vincoli a statuti e norme e leggi che pongano un freno, non ammette rigidità di tempi e di spazi e di nulla. Come può ammettere quindi il corpo riproduttivo femminile, cioè un corpo che impone regole e tempi propri ed inflessibili che rispondono solo alla vita?
E’ proprio questa la femminilizzazione attraverso cui il capitalismo sta riproducendo se stesso.      
L’irruzione massiccia delle donne nel mercato del lavoro doveva scomporre il quadro e fare disordine. Avrebbe dovuto produrre il progressivo adattamento del lavoro alle capacità e alle competenze femminili e nuovi modi di produzione che tenessero conto dei desideri. Avrebbe dovuto far irrompere vistosamente sulla scena l’elaborazione delle donne, a partire dalla loro esperienza, sul nesso produrre e riprodurre, su una nuova idea di welfare, invece abbiamo assistito alla sussunzione del femminile nei meccanismi di controllo imposti dal biocapitalismo sempre più vorace. Al furto delle competenze e delle “attitudini” considerate “naturalmente” femminili: il prendersi cura, l’affettività, la relazionalità, l’essere disposte a dare anche l’anima, per estendere la pretesa di controllare e dominare la vita sull’intero corpo sociale.
Le donne quindi diventano metafora dei mutamenti avvenuti nel senso più profondo del termine.
Volgere in positivo ciò che positivo non è
E’ necessario partire dalle condizioni del vivere,  sempre, per dire di un’epoca e per analizzarla a fondo, e questo è il quadro che abbiamo di fronte se mettiamo a fuoco la parte femminile. È una postazione d’obbligo visto che è là che con maggiore intensità morde la crisi, è là che si addensano le contraddizioni più esplosive dei mutamenti che sono in atto perché il conflitto oggi si gioca tra capitale e vita.  
Ed è ancora là che il movimento regressivo generale sul piano economico-sociale e politico-istituzionale appare con forza anche come arretramento di civiltà lasciandoci intravedere tutti i rischi di tornare a schemi arcaici pericolosi soprattutto per le donne, per le contraddizioni aperte con l’altro sesso, perché il patriarcato in tutte le forme in cui innerva la società è sottilmente vendicativo. E per quanto abbiamo detto fin qui.
Ma può essere questa anche una postazione  strategica? Può essere anche un punto di osservazione e riflessione che investa donne e uomini da cui trarre qualche alimento per far scorrere nuova linfa: idee, parole, teorie, pratiche, per uscire da questo infelice presente ed immaginare che un altro mondo sia possibile?
La precarietà del nostro presente assimila donne e uomini nelle stesse dinamiche di sfruttamento, ma donne e uomini la vivono diversamente perché diverse sono le loro genealogie, ci ricorda la filosofa femminista Federica Giardini. Ebbene, proprio in virtù di questa diversità, l’esperienza delle donne può rappresentare un ancoraggio se scegliamo di non fermarci alla denuncia e proviamo a volgere in positivo ciò che positivo non è stato. Trasformare l’originaria estraneità  femminile rispetto a un modello mai abitato fino in fondo, la  “cittadinanza incompiuta”,  la “ marginalità”, in elementi di forza e risorse per operare il salto teorico di cui ci sarebbe bisogno.  
Non significa quindi chiamare le donne a rimettere ordine e salvare un sistema in disfacimento,  come ancelle, vestali, salvatrici della patria. Nè cercare misure inclusive e tutele, anzi  andando oltre la retorica dell’inclusione.  Si tratta di operare un vero ribaltamento di posizione, assumendo un punto di vista asimmetrico perché asimmetrica è stata l’esperienza che le donne hanno fatto del mondo, e da lì ripensare la democrazia, l’economia, il lavoro, il modello di sviluppo, la giustizia, il vivere sociale, le relazioni, che è il compito che ci presenta la nostra epoca. Posizione strategica appunto in questo senso.
“Manteniamoci nella posizione di “migranti” rispetto alla cittadinanza. Che cosa significa allora essere cittadine?” continua Giardini. Significa rompere l’equazione cittadino-lavoratore. O più precisamente il nesso cittadino-lavoratore in produzione di merci. Significa considerare questo nesso e pensare il lavoro in modo differente. Significa che se la genealogia maschile deve fare i conti con il lutto per la centralità  del lavoro nel definire l’uomo-cittadino e la stessa identità maschile, il senso stesso del singolo, la genealogia femminile invece non è presa in questa fatica.   Le donne hanno pochi lutti da elaborare di fronte ad un sistema in crisi ed al collasso dei pilastri su cui si è fondata la modernità, sistema che loro hanno contribuito ad alimentare ma che non hanno inventato e non hanno governato mai. Ed allora lo svantaggio può diventare risorsa  soprattutto sul terreno dell’immaginazione e sul tentativo di tenersi a debita distanza dalla crisi come trappola che impone un pensiero del possibile e distrae dal pensare l’impossibile. Saper riconoscere come propria controparte chi detiene il potere e ne abusa attraverso il combinato malefico di tre elementi: discriminazione, umiliazione e colpevolizzazione. E’ ciò che le donne sono costrette a fare da sempre. E’ stato il loro esercizio per salvarsi. Le donne sanno che questi sono  dispositivi che, se combinati tra loro appunto, come oggi sono combinati,  producono assoggettamento e annichiliscono. Mettono a tacere.  
Possiamo parlare di femminilizzazione anche in questo caso? Possiamo dire che come nell’ambito del lavoro precario, quei dispositivi di controllo storicamente messi in atto dal maschile per controllare,  addomesticare e zittire le donne, nell’epoca dell’austerità si estendono anche agli uomini e dilagano in ogni sfera della vita pubblica per zittire anche la politica? Lo fanno sul ricatto morale, su una colpa da espiare per aver causato il flagello, e sulla competenza appannaggio solo di alcuni, cioè di chi ha il potere. E’ lo stesso meccanismo subdolo tra ricatto e consenso, insito nella precarietà, che allunga i suoi tentacoli e tuona dall’alto lanciando moniti ricattatori senza appello. Ma la genealogia delle donne che hanno attraversato la storia è segnata da strategie di resistenza, ricerca di punti di fuga, scarti, dentro un accumulo costante di esperienze fuori dai luoghi tradizionali che oggi sono in crisi, in una sorta di apprendimento costante della riproduzione prossimo alla vita, nonostante i moniti ricattatori e punitivi di dio padre e famiglia. E proprio questo accumulo di competenze può diventare una risorsa da cui attingere per non arrendersi. A che cosa? Alla precarizzazione della vita,  al silenzio, ma soprattutto non arrendersi  all’angusto recinto del possibile, perché oltre agli effetti disastrosi sul piano materiale che la crisi genera, come avverte giustamente Cristina Morini, c’è la dimensione altrettanto pericolosa  che riguarda la colonizzazione degli immaginari attraverso un messaggio martellante che tenta di paralizzare passioni, fantasie e azioni.  E noi sappiamo che l’immaginazione è un elemento decisivo per valutare la qualità della vita stessa e che senza immaginazione si perde il senso del futuro.
Ma l’unico modo per non arrendersi è fare della crisi una opportunità. Ancorarci nel presente e scovarvi un appiglio, inventare strategie di resistenza anche noi, vie di fuga, operare scarti, sottrazioni, rotture, imparando dalle donne. E tradurre tutto ciò in pratiche politiche collettive sapendo che oggi chi non ha nulla da perdere è la maggioranza, e le donne sono la maggioranza di questa maggioranza.

 

 

 

 

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