di Sergio Cesaratto

La mossa di Draghi di sostenere in maniera illimitata i titoli di stato a breve dei paesi che condizionino le proprie finanze pubbliche a un controllo europeo ha ricevuto unanimi consensi in Italia inclusi quelli, con qualche distinguo, de il manifesto.
Misura necessaria per ridurre gli spread giunti a livelli insostenibili, l'intervento della Bce non è certo risolutivo e nei termini posti addirittura controproducente. Intanto è politicamente indigeribile per Spagna e Italia le quali sperano infatti di cavarsela senza dover aderire al «programma precauzionale» di austerità concordato con l'Europa con tanto di vigilanza del Fmi.
Sperano cioè che l'effetto annuncio dell'altro ieri basti a ridurre gli spread, sebbene ad esso nulla di operativo segua senza le forche caudine della «condizionalità». Ma se nulla accade gli spread risaliranno, magari perché i mercati si aspettano una adesione solo quando sarà troppo tardi.

Quale obiettivo di riduzione degli spread la Bce assicuri non è noto, sicché la sua probabile insufficienza e l'irrigidimento delle clausole di austerità renderà difficoltoso ai paesi aderenti ottemperare agli obiettivi concordati. Se i paesi non ottemperano agli obiettivi concordati, la Bce potrà interrompere il sostegno, ma sancendo a quel punto una possibile rottura dell'euro.
Come si vede un vero pasticcio, che rende la mossa Draghi l'ennesimo «far rotolare giù la lattina per la discesa».
Essa conferma perà quello che gli economisti eterodossi (fra i quali quelli della «Modern Monetary Theory») hanno sempre sostenuto: i tassi li fanno le banche centrali e non i mercati. Se ne desume che gran parte dell'incendio di questi due anni sia stato appiccato dalla Bce medesima, ubbidiente al diktat dell'elite europea di spazzar via attraverso una crisi fiscale welfare state e sindacati - nella periferia in primo luogo, ma come lezione ai sindacati tedeschi in secondo.
Fatto è che le unioni monetarie nascono col precipuo scopo di costringere i paesi membri (e le loro classi lavoratrici) a una devastante concorrenza deflazionista.
Questo insegnamento ci proviene da Keynes, ma pochi fra gli economisti di sinistra sono culturalmente in grado di trarne le dure conseguenze. La Bce ha agito coerentemente al mandato. Delle tre fonti di crisi, quella consistente dello stesso euro, quella dovuta al mancato intervento della Bce per due lunghi anni, e quella dell'austerity, la mossa di Draghi attenua la seconda, ma al prezzo di alimentare la terza, e senza far nulla nei confronti della prima.
La mossa di Draghi va interpretata come frutto della paura che l'incendio si portasse via il presupposto medesimo del discorso, cioè l'euro, e che dunque i popoli dei paesi periferici potessero di dire basta a questa lenta agonia. Si tiene dunque in vita il paziente, ma solo quel tanto perché dosi rafforzate dell'altra cura, l'austerità, facciano effetto nell'annichilirne ogni volontà di reazione. C'è dunque un senso sinistro, e non progressista, come sembra sostenere Pizzuti ieri su questo giornale, al messaggio di Draghi sull'irreversibilità dell'euro.
Sono altre strade possibili? L'intervento incondizionato della Bce dovrebbe essere accompagnato dall'obiettivo della stabilizzazione dei rapporti fra debito pubblico e Pil (non riduzione). Questo obiettivo rassicurerebbe i mercati, mentre lascerebbe spazio a politiche fiscali espansive.
Ciò non basterebbe, tuttavia, a ricomporre gli squilibri commerciali infra-europei. Si dovrebbe rapidamente anche andare verso un crescente bilancio pubblico europeo con una forte componente redistributiva centro-periferia, mentre il ruolo dei bilanci nazionali potrebbe ridursi (come negli Usa, insomma).
Questa dell'Europa Federale è una prospettiva che però tanto somiglia a un'Europa divisa fra sussidiati e sussidiatori, inaccettabile per evidenti motivi ad entrambi, e non per le generiche «idiosincrasie nazionali e nazionalistiche» che Pizzuti vede come ostacolo.
Soprattutto, la dura realtà è che l'Europa va in un'altra direzione, l'euro è nato per quello.
* Economisti oltre l'austerity

 

il manifesto 8 settembre 2012

 

 

 

 

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