di Luca Sappino
Lo sapeva, Sergio Cofferati, che sarebbe finita così. Se gli chiedi se a dieci anni dalla piazza del Circo Massimo, dall’oceanica manifestazione in difesa dell’art. 18, Sergio Cofferati, allora segretario della Cgil e oggi europarlamentare del Partito Democratico, si sarebbe aspettato di dover tornare a difendere lo stesso identico punto, lui confessa: «l’avevo messo in conto. Perché era già all’epoca evidente che esisteva un’avversità ideologica ai diritti che erano maturati nel mondo del lavoro». Altro che ”ce lo chiede l’Europa”, dunque. Altro che emergenza: era tutto già scritto. I referendum convocati dall’Italia dei Valori, per ripristinare l’art.18 e il contratto nazionale, a cui hanno aderito Nichi Vendola, la Federazione della sinistra, i Verdi e – ovviamente – la Fiom, «ci ricordano intanto che non è un caso se siamo arrivati a questo punto».
Onorevole non la stupisce quindi dover tornare a difendere ancora l’art. 18?
No. Si poteva prevedere che saremmo tornati lì, osservando meglio l’avanzare di un’avversità ideologia verso i diritti, in particolare quelli dei lavoratori. Avanzava, l’ideologia, in luoghi insospettabili.
Vuol dire anche nel centrosinistra?
Anche in alcune aree del campo progressista. Certamente.
E infatti dopo dieci anni i lavoratori stanno peggio? La loro lotta è sempre più di conservazione, una resistenza. C’è una colpa dei sindacati?
Non vedo colpe, ma semmai difficoltà. I sindacati sono i primi a fare i conti con gli effetti della crisi, con la diminuzione dei posti di lavoro e l’aumentare della povertà. E sono i sindacati che fronteggiano per primi la crisi, dovendo spesso fare i conti con una politica che non ne riconosce né valorizza ruolo e potenzialità.
Anche qui non solo a destra?
Nel ’92 e nel ’93, Amato e Ciampi firmarono accordi molto impegnativi per loro come per gli stessi sindacati, tanto che si arrivò alle dimissioni del segretario generale della Cgil, poi rientrate. Il sindacato poteva però rispondere al meglio al suo compito, perché dall’altra parte c’erano interlocutori che rispettavano e proponevano l’assunzione di quel ruolo.
E non è più così…
Oggi no. Si guarda ai sindacati con fastidio, da destra come, alle volte, da sinistra. Il loro lavoro è sempre più difficile: nessuno gli chiede più di contribuire ad evitare la catastrofe, insieme al Governo e alle imprese.
E’ quindi utile il referendum proposto e sostenuto dai partiti a sinistra del Pd?
Lo è sicuramente. I quesiti, secondo me, hanno due potenziali approdi: cancellare le norme, se la maggioranza andrà a votare, rimettendo in campo i diritti, e – soprattutto – tenere accesa la discussione intorno ai temi del lavoro, che sono spariti anche del campo progressista, in Italia come in Europa. Si ragiona poco sulle mutazioni che stanno avvenendo, e l’attacco ai diritti non desta il necessario allarme.
Lei sosterrebbe volentieri il referendum. Ma il Pd?
Io penso che il Partito democratico farebbe bene a sostenere la campagna referendaria: sarebbe utile e giusto. Anche per non ripetere errori di distrazione e di sottovalutazione, come fu per il referendum sull’acqua pubblica.
E che ne sarebbe della continuità con il governo Monti, auspicata da molti nel suo partito?
Non ci sarebbe. Ma io penso che, sulle politiche economiche e del lavoro, la discontinuità con il governo Monti è necessaria. Com’è necessaria sull’altro tema scomparso: la redistribuzione della ricchezza.
Ora la chiamano “equità”…
Noi, dal dramma del ’92 uscimmo con una politica dei redditi, che teneva insieme i salari con i prezzi e le tariffe, e funzionò benissimo. Quando oggi ci ripetono che “rischiavamo di finire come la Grecia”, ci impressioniamo perché abbiamo la memoria corta: noi eravamo in condizioni non dissimili dai paesi europei oggi ad un passo dal default. Ciampi ad agosto bruciò 40mila miliardi per cercare di fermare la speculazione sulla Lira. Amato la svalutò del 30%. Da quella situazione drammatica, uscimmo con l’impegno a ridistribuire. E ci riuscimmo. Potemmo rispondere a Maastricht e adottare la moneta unica.
Mario Monti ha annunciato il confronto tra governo e parti sociali…
Ma mi pare che l’intenzione sia un’altra. Nel governo Monti non c’è nessuna traccia e nessuna intenzione di ridistribuzione.
Anche questo non la sorprende?
Non mi sorprendo perché so che non c’è nel loro orizzonte. Monti ha usato parole durissime contro la concertazione che invece più volte è stata la salvezza, capace di fermare la caduta verticale dell’economia.
Mi scusi, ma allora, se le riforme del governo Monti vanno smontate, che senso ha avuto votarle?
E’ evidente che la fase di transizione che si è aperta dopo uscita di scena Berlusconi – vedremo poi se definitiva o temporanea – ha costretto il Pd a vivere delle contraddizioni. Per evitare che un ricorso anticipato alle urne potesse trasformarsi in condizioni tragiche, non c’era alternativa alla compartecipazione al governo.
Ora bisogna andare oltre alla “responsabilità”. Non tutti però nel Pd la pensano come lei?
Il problema è appunto che all’interno del Pd c’è una parte che considera questa fase una fase di transizione, utile a uscire dal guado, ma c’è anche un’altra parte che, ormai esplicitamente, condivide le politiche che caraterizzano questa fase di transizione.
Possono convivere queste due parti?
Il tempo della convivenza sono le elezioni: lì bisognerà andare con il programma. E’ un passaggio stretto ma risolutivo. E io penso che se la coalizione prospettasse la continuità con il governo Monti, magari anche fisicamente rappresentata, sbaglierebbe. Poi per quanto riguarda la linea del partito, sarà il congresso a stabilire l’orientamento prevalente che vincolerà le azioni politiche successive.
Il senatore democratico Tonini svela una preoccupazione diffusa: «Non possiamo permetterci una nuova Unione».
Dobbiamo evitare giudizi approssimativi, evitare di dipingere scenari catastrofici. Parliamo di temi che riguardano milioni di persone, sui quali la coalizione dovrà pronunciarsi: un programma senza questi temi non sarebbe tale. Anche appoggiando i referendum non esisterebbe nessun “rischio Unione”. I confini della coalizione mi sembrano sufficientemente definiti. Se poi Sel e il Pd dovessero mantenere posizioni diverse sui referendum, non credo questo cambierebbe il loro rapporto.
Ma non c’è solo Vendola.
Le ragioni che non permettono l’alleanza con le altre forze sono altrettanto ben definite e note: non cambierebbe nulla.
Insomma rassicuriamo Tonini?
Assolutamente. I referendum non raffigurano il ritorno all’Unione. Altrimenti sarebbe come se – mi lasci dire – il fatto che Tonini e altri colleghi, in Parlamento, abbiano votato provvedimenti insieme a Pdl, lasciasse profilare automaticamente una Grosse Koalition.
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