di Paolo Leon
La crisi economica è molto grave: questo lo sanno tutti, e la cura, che riguarda quasi tutti i paesi, e in particolare quelli con forte debito pubblico, consiste in una severa austerità, il cui scopo è quello di ridurre deficit e debito, fino a raggiungere – in futuro – il pareggio di bilancio. Purtroppo, l’austerità crea un killer silenzioso: poiché riduce la domanda complessiva, sia in ciascun paese, sia nell’economia mondiale, tende a ridurre il gettito tributario e, per questa via, ad aumentare il deficit.
Se a questo circolo vizioso si aggiunge il comportamento delle banche, sollecitate da regole decise in sede burocratica (Basilea II e, tra poco, Basilea III), che restringono il credito alle imprese al crescere delle sofferenze, anche in presenza di liquidità offerta quasi gratuitamente dalle banche centrali, è ovvio che la crescita economica sia assente e che l’intera struttura produttiva di ciascun paese possa essere scossa fin dalle fondamenta. È il caso di Grecia, Portogallo e Spagna, ma anche dell’Italia, dove molte imprese industriali chiudono o traslocano verso siti che si presumono meno costosi, le catene commerciali vedono diminuire i fatturati, il turismo è in calo, il settore delle costruzioni è in profondo rosso.
Da questo tornado economico si salvano soltanto alcune imprese pubbliche, grandi oligopoli finanziari (ma con cadute anche epocali), settori di rendita o che offrono beni e servizi di sussistenza. Tutto il resto della produzione è a rischio. Quando tali situazioni si presentano – ed è evento tanto raro quanto distruttivo – sembra che i governi alzino le mani. Del resto, la cultura economica dominante è stata sorpresa dalla crisi, ma, riavutasi, non ha cambiato le proprie sicurezze, e le comunica ai governi; tanti “ponzi pilati” attribuiscono così la crisi, le chiusure e la perdita di capacità produttiva e di forza lavoro, a qualche difetto in genere poco definibile: lo spreco, la pigrizia dei lavoratori, la bassa produttività (sempre e solo del lavoro).
I più allenati attribuiscono il disastro alle politiche europee, agli speculatori, alla difesa di valori tradizionali e ormai desueti (come la giustizia sociale, i diritti civili, lo Stato sociale universale, per non parlare della piena occupazione ecc.): lo scopo è sempre quello di allontanare dai governi la responsabilità della crisi, scaricandola sui propri cittadini o su governi di altri paesi.
La crisi è di domanda
Nessuna delle componenti che muovono il prodotto nazionale è realmente attiva: le esportazioni languono, perfino nei paesi emergenti, anche perché le importazioni sono frenate dalla caduta dei redditi; gli investimenti sono quasi fermi, perché le imprese non vedono aumenti di domanda per i loro prodotti e servizi; la spesa pubblica è in declino, per le misure di austerità; i consumi calano meno del reddito disponibile delle famiglie, ma ciò riduce la propensione al risparmio e, con questa, anche la propensione ad investire da parte delle famiglie.
In alcuni paesi la situazione è migliore (Nord Europa), ma anche lì la crisi si fa sentire, perché nessun paese vive isolato dal resto del mondo. Se le componenti della domanda sono frenate, e le politiche sono di offerta, come l’austerità, è difficile vedere “la luce alla fine del tunnel”.
Le nazionalizzazioni
Esistono, tuttavia, politiche che riguardano l’offerta che possono avere un effetto sulla domanda: le occasioni non sono numerose, ma alcune sono state individuate già all’indomani dello scoppio della crisi, come la cosiddetta riconversione ecologica dell’economia. Il progresso su questo fronte, però, dopo un’iniziale intensità, è andato calando, sia perché non vi era una strategia applicabile alla realtà dei diversi paesi, sia per l’impatto di queste politiche sulla finanza pubblica. Quella della green economy è solo una delle possibilità. Ne esiste un’altra che attende solo di trovare gli occhi aperti per afferrarla. Consiste, in particolare, nel nazionalizzare tutte quelle imprese che stanno contribuendo a far diventare più profonda la crisi, e a renderle, proprio attraverso l’investimento per la loro trasformazione, sia un elemento della nuova domanda effettiva, sia un ostacolo all’approfondimento della crisi, attraverso la salvaguardia dell’occupazione.
Vorrei fare una breve classifica dei candidati: • le imprese che inquinano e non sono affidabili nel realizzare un processo di risanamento; • quelle che sopravvivono soltanto sfruttando la forza lavoro o utilizzando manodopera clandestina, o non retribuendo i lavoratori; • quelle che evadono il fisco e gli oneri sociali; • quelle con forte grado di monopolio, che profittano del dumping ambientale in altri paesi e chiudono gli impianti; • quelle monopolistiche che trasferiscono altrove impianti e controllo dei mercati per profittare del dumping sociale; • quelle che hanno carattere strategico sul mercato mondiale e non hanno capacità finanziarie sufficienti per conservare capacità e occupazione; • quelle che, per difficoltà finanziarie, non sono in grado di aggiornare impianti e professionalità; • quelle non strategiche, ma che operano in settori strategici, cui manca il credito di esercizio o la cui condizione finanziaria è negativa; • quelle acquistate e/o salvate da imprenditori incapaci o appartenenti alla criminalità organizzata, o da semplici truffatori; • quelle che hanno corrotto amministratori e funzionari pubblici; • quelle che non rispettano gli impegni sottoscritti quando hanno ottenuto incentivi; • quelle, pubbliche e private, di servizio locale responsabili di aumenti tariffari derivanti da imperizia, corruzione, mancata manutenzione (e queste stesse imprese quando non rispettano gli obiettivi dei contratti di servizio); • quelle, infine, cui è stata attribuita la responsabilità per la produzione di beni pubblici, di merito, sociali, e non rispettano gli obblighi pubblici.
Se guardiamo alla realtà dei processi di dismissione in Italia, possiamo immaginare una serie anche più ampia di casi. Il lettore, a sua volta, può esercitarsi a scrivere il nome di imprese che conosce accanto a ciascuna delle categorie indicate nella lista (cominciando con Ilva di Taranto, Alcoa di Portovesme e Lucchini di Piombino). Interessano, naturalmente, soprattutto quelle imprese che nelle condizioni indicate hanno effetti negativi moltiplicativi – sull’indotto, la subfornitura, il territorio, la ricerca, l’innovazione, l’ambiente – e le cui dimensioni rischiano di mettere in difficoltà la bilancia dei pagamenti.
I problemi
Vi sono molte difficoltà nel realizzare nazionalizzazioni. Uscire dalle politiche tradizionali implica cambiare mentalità sul rapporto tra settore privato e pubblico, senza abbandonare i principi del mercato – un esercizio complesso quando l’impresa privata è considerata capace di risolvere, meglio di quella pubblica, tutti i problemi posti dal mercato, anche se la crisi dimostra il contrario –. E d’altro canto, le imprese pubbliche sono ancora presenti, soprattutto nell’Europa dell’Unione, e in genere riguardano realtà che si considerano strategiche. Benché una definizione di cosa sia strategico manca, dopo tanti anni di poca attenzione alla programmazione, le istituzioni esistono; in Italia, la Cassa depositi e prestiti è stata il luogo di raccolta delle partecipazioni azionarie dello Stato nel settore energetico e in quello meccanico.
I problemi che fa nascere una politica di nazionalizzazioni, piuttosto che interventi sporadici, dettati dalle circostanze, sono essenzialmente quattro. Il primo è la necessità di una legge sugli espropri per ragioni collettive; è vero che per la Costituzione le imprese devono avere un fine sociale, e chi non lo ha o l’ha perduto sarebbe espropriabile, ma in genere un dettame della Costituzione diventa effettivo con una legge e ciò richiede un Parlamento in attività e tempi in linea con l’urgenza dettata dalla crisi.
Il secondo problema sta nell’eventuale obiezione dell’Unione europea, che riterrebbe la nazionalizzazione, specie se santificata in una norma nazionale, una rottura delle regole del libero mercato. Qui, insieme al buon senso, va invocato lo stato di necessità e, insieme, una politica europea sui salvataggi, da applicare in tutti i paesi dell’Ue. Quest’ultima non è un’ipocrisia: nell’ossessione per la sacralità della proprietà privata, manca una vera e propria legislazione europea sulle proprietà pubbliche. Queste appaiono residuali, fonti di mero protezionismo, una distorsione da estirpare: che si tratti di ideologia è più che palese.
Il terzo problema è rappresentato dall’assenza, nello Stato, di strutture tecniche e di dirigenza capaci di condurre in porto le singole operazioni di trasformazione. In parte, la dirigenza originaria della singola impresa può essere riutilizzata, se non è compromessa con il fallimento o lo sviamento degli obiettivi dell’impresa. In parte, le grandi imprese oggi già pubbliche possono fornire sia le capacità tecniche, sia parte dei fondi necessari alla trasformazione.
Il quarto problema sta nel costo, a carico dello Stato, dell’operazione di salvataggio e trasformazione, oltre all’eventuale compensazione per l’espropriato. È però vero che il patrimonio pubblico cresce e che si tratta di spese di investimento, il cui scopo è di ottenere una nuova redditività: ne deriva che il finanziamento può essere ottenuto da prestiti. Certo, si aggrava il deficit pubblico a breve, ma l’effetto sull’economia nel suo complesso, se non si tratta solamente di operazioni occasionali, dovrebbe essere positivo e riflettersi in maggiori entrate tributarie. Tutto sarebbe più facile se si applicasse la regola aurea (golden rule) per la quale si esclude dai parametri di Maastricht la spesa per investimenti, per il momento osteggiata dalla Germania. Non è fuori della realtà, infine, che sia possibile trovare finanziamenti nella forma di project finance, associando lo Stato a società d’investimento private, capaci anche di selezionare una dirigenza, pur temporanea, sostitutiva di quella originaria.
Conclusione
Si tratta di problemi che implicano procedure lunghe e faticose, tra interessi collettivi e individuali: ne segue che le nazionalizzazioni devono poter essere attuate nel momento nel quale l’impresa si rende responsabile di licenziamenti di massa o di abbandono del territorio nazionale. Poiché ad impossibilia nemo tenetur, per convincere chi solleverà questi problemi fino a rappresentarli come ostacoli insuperabili, e per giustificare l’intervento pubblico di salvataggio, è allora forse soltanto necessario dimostrare, con un calcolo apposito, il danno derivante all’Italia (e all’Europa) dai licenziamenti, dalla riduzione della capacità, dalla chiusura o l’abbandono degli impianti, dal deserto territoriale conseguente.
Del resto, non è importante che la proprietà risalga allo Stato: la nazionalizzazione può ben essere temporanea, fino al risanamento dell’impresa e la ripresa dell’economia. Si può obiettare che il calcolo del danno implica un moral hazard, poiché è facile alterare la realtà dei conti perché favoriscano o l’esproprio o la chiusura, data la forza degli interessi in gioco (del sindacato, per evitare la disoccupazione, dell’impresa che vuole fuggire). Ne deriva la necessità di un organo consultivo indipendente, capace di dar ragione delle decisioni in merito all’impianto da salvare.
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