di Simone Oggionni
La Costituzione ci insegna a rispettare i compiti e l’azione della Magistratura. Tuttavia, nella misura in cui l’applicazione del diritto ha conseguenze e implicazioni di natura sociale, l’esercizio della politica incrocia la possibilità della critica.
In questo senso, gli ultimi sviluppi della vicenda giudiziaria che riguarda gli stabilimenti Ilva di Taranto destano molte, motivate preoccupazioni.
Partiamo da un presupposto: il diritto al lavoro e il diritto alla salute non possono essere utilizzati uno contro l’altro.
Farlo denuncia una strumentalità inaccettabile, allude ad un tradimento della civiltà giuridica del nostro Paese, della nostra Costituzione.
Non può esistere, non deve esistere, un diritto al lavoro insalubre, dannoso e mortifero; e non può esistere, non deve esistere, un diritto alla salute in nome del quale si desertifichi sul piano sociale, industriale e produttivo un territorio e la sua comunità.
Se questo è il presupposto bisogna avere il coraggio di dire che la sentenza del Riesame aveva raggiunto un punto di equilibrio importante, da valorizzare. Perché esprimeva per la prima volta un interesse dello Stato e dei suoi organi dopo decenni di totale, criminosa irresponsabilità; e perché consentiva, nel sequestro con “facoltà d’uso” e nel contesto di un obbligo al risanamento e all’ammodernamento degli impianti, la non interruzione della produzione. L’ordinanza del gip rompe questo equilibrio e decide di scaricare sulla città di Taranto (non soltanto sui 12mila operai dell’Ilva, sugli 8mila degli appalti e dell’indotto, sugli operai degli stabilimenti del Nord dipendenti dal ciclo a caldo di Taranto) il prezzo di questa forzatura.
Con gli impianti spenti, con la produzione bloccata non ci sarebbe più alcun equilibrio, perché verrebbe meno – improvvisamente – l’oggetto stesso del diritto al lavoro. E tutto ciò che si decidesse di fare in conseguenza di questo atto sarebbe nient’altro che un tentativo imperfetto di recuperare stabilità occupazionale in un contesto già pesantemente depresso e impoverito dalle ataviche irresponsabilità e ignavia del capitalismo italiano (tanto quello clientelare di Stato, quanto quello parassitario e di rapina che si è avventato sulla carne viva dell’industria meridionale dopo la stagione delle privatizzazioni).
Allora bisogna essere chiari. In primo luogo ribadendo che diritto alla salute e diritto al lavoro devono marciare insieme, senza sconnessioni. In secondo luogo affermando con nettezza che il governo, le istituzioni pubbliche tutte, il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante (pur delegittimato pesantemente dal gip) devono imporre che sia la proprietà a farsi carico dei costi di un risanamento tanto imprescindibile quanto possibile, come dimostrano i modelli e le esperienze recenti della Germania.
E che sia la proprietà e non un altro il soggetto che deve assumersi l’onere della modernizzazione degli impianti non è un fatto puramente giuridico. Ha a che fare anche con la sfera dell’etica e con il principio della responsabilità, se è vero come è vero che la famiglia Riva negli ultimi anni ha realizzato profitti d’oro e non può esimersi dall’utilizzare questi utili per consentire finalmente – dopo anni di vergognosa indifferenza – agli operai di conservare il lavoro e agli operai e ai cittadini di vivere fuori dall’incubo della morte.
L’alternativa a questo (e cioè all’assunzione da parte dell’impresa della propria responsabilità sociale) è una e una sola, garantita dalla nostra Costituzione: l’esproprio dell’azienda e la ri-nazionalizzazione dell’Ilva con lo Stato come protagonista diretto di un grande progetto di ammodernamento e messa a norma degli impianti.
In terzo luogo, infine, bisogna affermare che non è pensabile che un Paese come l’Italia sia privo di un grande polo siderurgico. La sopravvivenza dell’Ilva è una necessità strategica dell’Italia e della sua classe operaia, perché va scongiurato – su questo i comunisti devono dire parole inequivocabili – il pericolo di una desertificazione industriale del Paese, che è, come dimostrano la politica aziendale della Fiat e la recente vicenda di Alcoa, l’obiettivo a cui lavorano ormai scopertamente i maggiori gruppi imprenditoriali italiani.
Cosa fare, allora, nell’immediato? Quello che stanno facendo le compagne e i compagni di Rifondazione Comunista e dei Giovani Comunisti di Taranto. Quello che sta facendo la Fiom, che negli ultimi mesi sta lottando nell’interesse dei lavoratori e dei cittadini di Taranto, indirizzando la rabbia e la protesta non contro la Magistratura ma contro la proprietà e le pesanti responsabilità della famiglia Riva.
Salvaguardare il diritto al lavoro nell’ambito di una visione strategica del comparto industriale nazionale (che deve vedere al centro lo Stato e la sua capacità di pianificazione); esigere e ottenere il diritto alla salute dentro la fabbrica e fuori dalla fabbrica. Esigere ed ottenere la partecipazione diretta dei lavoratori al piano di risanamento, di messa in sicurezza e di rilancio dell’Ilva. Perché le competenze manuali ed intellettuali, tecniche e scientifiche dei lavoratori dell’Ilva, a partire da quelle dei nostri compagni, sono una ricchezza imprescindibile. I Giovani Comunisti sono al loro fianco.