Intervista a Francesca Re David (Fiom)
di Stefano Galieni
Francesca Re David è responsabile nazionale organizzazione della Fiom. Non solo l’organizzazione che rappresenta fa parte del comitato promotore dei referendum ma a lei faranno capo i comitati di sostegno dell’organizzazione sindacale, impegnata nella raccolta firme. Le chiediamo con quale approccio e in che senso la Fiom intende fondamentali questi referendum.
«Noi lo dicemmo chiaramente anche durante la manifestazione del 9 marzo che avremmo utilizzato ogni strumento possibile sia per impedire la distruzione dell’articolo 18 che per far si che venisse introdotto l’articolo 8 che distrugge il contratto nazionale. Abbiamo più volte organizzato scioperi per sostenere i diritti di cittadinanza nei luoghi di lavoro dicendo chiaramente come la pensavamo.
I referendum abrogativi si sono rivelati essere un importante strumento quindi ci daremo da fare nei comitati di sostegno per raccogliere le tante firme necessarie in tre mesi. Vogliamo costruire una forte mobilitazione attorno a questi temi, poi o ci sarà un intervento del parlamento o si andrà al referendum. Stiamo lavorando anche ad una proposta di leggi di iniziativa popolare per che si pone come obbiettivo l’introduzione del reddito minimo di cittadinanza e che intende affrontare frontalmente il tema della precarietà. Ne stiamo discutendo molto con studenti e precari perché vogliamo respingere e demolire la versione falsa che prefigura uno scontro fra garantiti e non garantiti, fra vecchi e giovani.
In poco tempo il lavoro è stato “mangiato” e non ridistribuito e non lo accettiamo.
Inoltre ci sono pervenuti i casi già di 15 lavoratori licenziati dalle proprie aziende per ragioni economiche, a causa delle modifiche imposte dalla “riforma Fornero”, si tratta solo del primo segnale che testimonia come le imprese abbiano ora uno strumento in più per imporre la cultura del ricatto».
La dirigenza della Cgil ha avuto finora una reazione fredda rispetto ai referendum.
«C’era una diversa valutazione sin dall’inizio. Per la maggioranza le modifiche introdotte rispetto alla prima versione della riforma erano considerate sufficienti. Noi della Fiom abbiamo detto che così non era. Il sindacato resta molto cauto ma noi dobbiamo dare l’idea che per i lavoratori non tutto è perduto, quando partiranno le campagne di sostegno altre categorie ci seguiranno. Forse nelle fabbriche le modifiche introdotte si avvertono più immediatamente e la valutazione che se ne trae è più secca».
Certo è che con la presentazione dei referendum avete costretto un mondo politico in cui si parla quasi soltanto di alleanze e di primarie ad accettare e a doversi confrontare con l’irruzione dei problemi del lavoro.
«Verissimo. Noi con l’iniziativa del 9 giugno scorso, abbiamo invitato i leader di tutti i partiti, anche non presenti in questo parlamento, a prendere la parola sul tema. Tutti avevano detto che i temi erano importanti. Ma immediatamente si ritornati alla scomparsa del lavoro dalla discussione pubblica. Del resto sono quasi venti anni che questi temi che riguardano la vita di gran parte della popolazione non hanno spazio per farsi sentire. La nostra campagna deve volutamente e in questi mesi di campagna elettorale, costringere a parlare, deve disturbare il manovratore. Si deve tornare a parlare di giustizia sociale. Del resto per noi la politica è questa. E c’è una crisi di rappresentanza sociale di una parte importante del Paese ma non si può continuare a sostituire la politica con la finanza».
Il comitato promotore a tuo avviso può essere portatore di spinte verso l’unità della sinistra?
«Una domanda difficile. Io registro il fatto che forze schierate in schieramenti diversi, su questi temi, abbiano definito una azione comune che li mette in una condizione di dialogo e di confronto. E questo rimanda ad un problema che ponevo prima; ovvio che quando dico manca una rappresentanza del mondo del lavoro e di una generale crisi del sistema di rappresentanza, parlo di un tema che riguarda tutti. Se si coglie l’occasione per riaprire una discussione ne deriverebbe un fatto politico importante ma non ho gli strumenti per valutare oggi se questo accadrà».
Negli scarsi spazi che l’informazione ha dedicato alla presentazione dei referendum, si fa accenno ad alcuni e solo ad alcuni dei partiti promotori ma non si considera la Fiom. C’è una ragione specifica a tuo avviso?
«A monte c’è il fatto che si parla solo di legge elettorale e di alleanze. Quindi la campagna referendaria sarà tutta in salita. Tale condizione non è tanto dovuta ai contenuti quanto all’ oscuramento dei temi del lavoro. Sembra quasi che solo se si compiono atti estremi privati e disperati si ha diritto ad essere menzionati. Io considero questo un problema di democrazia grande come una casa. Per questo occorrerà l’impegno di tutti, al di là della visibilità. Serve una azione politica e sindacale collettiva che ci dia la possibilità di ricambiare, di conquistarci gli spazi di priorità nell’agenda politica e mediatica. Ma è difficile perché la cultura di questi decenni è andata al contrario».
Eppure si percepisce un certo entusiasmo attorno a questa proposta di partecipazione.
«Anche io sono ottimista, sia perché è largo il comitato promotore, sia perché si è reso evidente come l’attacco ai diritti sul lavoro si configuri come un furto. Le persone capiscono come non sia vera la favola secondo cui le troppe opportunità offerte ai “garantiti” abbiano penalizzato chi non riesce a entrare nel mondo del lavoro e chi è precario. Dobbiamo utilizzare questa occasione per lavorare su una ricomposizione del lavoro e sulla definizione di percorsi comuni che abbiano come punto di partenza l’estensione e la difesa dei diritti di chi lavora».
Inevitabile non concludere questo colloquio con le pessime notizie che giungono dalla Fiat.
«È triste riconoscerlo ma su Marchionne e il suo progetto avevamo ragione noi. E quello che si è verificato a Pomigliano, si va estendendo in altri settori dell’industria, nel commercio e nei trasporti. Il progetto “Fabbrica Italia” da cui tanti si erano lasciati incantare, non esiste. Al di là di cifre gettate come fumo negli occhi – 20 miliardi di investimento – nessuno conosce il progetto. Fatto sta che in Italia il capitale è libero di muoversi come vuole. Secondo chi comanda produrrà benessere ma non è vero e i fatti lo dimostrano. Nel resto d’Europa c’è controllo pubblico, lo Stato interviene laddove ci sono situazioni poco chiare. .Dietro questa vicenda –l’intero scontro fra una parte dei lavoratori e l’azienda- che ha cambiato le relazioni industriali non c’è stato nulla di positivo. Si è imboccata una strada opposta. Occorrerebbe l’ingresso di capitali pubblici e privati per un modello di sviluppo nuovo, capace di coniugare ambiente e lavoro impedendo che accadano disastri come a Taranto con l’Ilva. Da notare una cosa: lo scontro fra diritti e lavoro, fra salute e lavoro,si esprime nel massimo della sua violenza a Sud. Dovrebbe farci riflettere, altro che lavoratori sfaticati e assenteisti. Se si vuole ridare un futuro al Paese, partendo anche da queste condizioni, bisogna intervestire soldi in “democrazia” per rilanciare l’idea di sviluppo in una logica radicalmente diversa».
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