di Andrea Baranes -
Spesso sembra che le politiche di austerità siano prerogative dell’Unione Europea. È vero che Bruxelles e la Troika (Commissione, Bce e Fmi) si sono contraddistinte per una visione a senso unico della crisi e soprattutto di come uscirne: diversi Paesi europei sono “indisciplinati”, hanno speso troppo per lo stato sociale e devono ora rimettere a posto i propri conti pubblici, pena la condanna dei mercati. È però altrettanto vero che la situazione non è certo limitata all’Europa.
Di fatto molte delle misure più dure sono state approvate nei Paesi del Sud del mondo.

Secondo dati del Fondo Monetario Internazionale nel 2013 ben 119 paesi del mondo passeranno attraverso un qualche «aggiustamento» della propria spesa pubblica. Nel 2014 il numero di stati coinvolti dovrebbe salire a 131 e il trend dovrebbe continuare almeno fino al 2016. È quanto emerge da uno studio appena pubblicato dall’Initiative for Policy Dialogue della Columbia University in collaborazione con il South Centre: The Age of Austerity – A Review of Public Expenditures Adjustment Measures in 181 Countries (L’era dell’austerità – studio delle politiche di aggiustamento della spesa pubblica in 181 paesi).
La ricerca esamina i dati del Fmi per 181 nazioni, mettendo a confronto quattro periodi: 2005-2007 (pre-crisi), 2008-2009 (prima fase della crisi ed espansione fiscale), 2010-2012 (seconda fase della crisi e contrazione fiscale), 2013-2015 (terza fase della crisi e intensificazione della contrazione fiscale). Sono inoltre stati esaminati 314 rapporti-paese dello stesso Fmi (relativi a 174 paesi) per identificare i principali aggiustamenti presi in considerazione sia nel Nord che nel Sud del mondo.
Ebbene quest’anno l’austerità potrebbe riguardare circa l’80% della popolazione globale, ovvero circa 5,8 miliardi di persone. Riguardo le misure adottate tra il 2010 e il 2013 le più diffuse sono l’eliminazione o la riduzione dei sussidi e degli aiuti, in particolare su agricoltura e cibo (in 100 paesi); la riduzione dei salari, a partire da quelli nell’istruzione, la sanità e altri settori pubblici (98 paesi); la diminuzione delle reti e delle misure di protezione sociale (80 paesi); una riforma delle pensioni (86 paesi); tagli alla sanità pubblica (37 paesi); più flessibilità per i lavoratori (in 32 paesi). Come se queste misure non fossero sufficienti, lo studio ricorda come diversi governi ne abbiano adottate anche altre, con pesanti ricadute, soprattutto sulle fasce più deboli della popolazione. È il caso di politiche fiscali regressive come l’aumento dell’Iva o simili che pesano in maniera sproporzionata sulle fasce più povere (questo è accaduto in 94 paesi). Nell’ultima parte della ricerca si mette in discussione tanto l’equità quanto la validità di tali decisioni, affrontando la questione da diversi punti di vista: la tempistica, lo scopo che si voleva perseguire, l’intensità delle misure adottate, la loro efficacia dal punto di vista macroeconomico rispetto al costo sociale.
Il risultato è prevedibile. Le conseguenze sono gravi e rischiano di esserlo ancora di più nel prossimo futuro: aumento della disoccupazione, maggiore povertà, aumento delle disuguaglianze. I costi dell’aggiustamento sono scaricati sui settori più deboli e con meno tutele sul lavoro. In poche parole, a fronte di una crisi causata da una finanza ipertrofica e fuori dalla realtà, il costo della «ripresa» è pagato quasi interamente dai più poveri (e ad oggi di «ripresa», in particolare per queste fasce della popolazione, nemmeno l’ombra). Ricordiamo che pochi mesi fa il capo economista del Fmi aveva fatto un clamoroso mea-culpa, ammettendo che le politiche di austerità non solo hanno un costo sociale elevatissimo, ma spesso portano a un peggioramento del rapporto debito/ Pil, ovvero sono controproducenti anche dal punto di vista macroeconomico e dei conti pubblici che si pretende di risanare. Inutili, nocive, sbagliate, e imposte nel mondo intero. È questa l’«efficienza» dei mercati globali.
Pochi sanno che nei 15 paesi più ricchi dell’Ue i tassi di povertà sono paragonabili a quelli dei paesi in via di sviluppo. Senza l’intervento pubblico più del 40% della popolazione sarebbe da considerare «povera». È solo grazie al welfare e a un fisco progressivo che il tasso di povertà medio è “solo” del 15%. E dal 2011, con l’austerity, la povertà cresce: +5% in Austria, +4,7% in Belgio, +8,5% in Francia, +8,6% in Grecia, +6,5% in Italia, +11,7% in Spagna e +5,2% in Svezia.

 

Il Manifesto – 17.04.13

 

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