L’accordo sulla rappresentanza sindacale firmato da sindacati e imprese è stato salutato come una svolta epocale e in un certo senso lo è, ma bisogna anche avere altrettanto chiari i suoi limiti: come vedremo, essi portano a concludere che c’è ancora bisogno di una legge. Innanzitutto c’è da dire che questo accordo non riguarda tutta la contrattazione, perché la territoriale e la aziendale restano regolate dagli articoli 3, 4 e 5 dell’accordo del 28 giugno 2011.

E, come si ricorda, questi articoli hanno previsto un’efficacia generale del contratto aziendale qualora esso sia stipulato da un Rsa, ovvero confermato, in alcuni casi, dal referendum tra i lavoratori.

Qui invece si parla del contratto nazionale di categoria e si sancisce un principio democratico di grandissimo rilievo, cioè che la legittimazione alla negoziazione si basa sulla rappresentatività: chi effettivamente rappresenta in maniera sufficiente almeno il 5% di lavoratori interessati ha il diritto di negoziare e non può essere escluso. Finora, al contrario, in base a un’interpretazione errata dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, si contrattava, negoziava e firmava col sindacato che faceva più comodo, anche se di minoranza, e questo contratto restava poi l’unico. Non sarà più così.

Un esempio su tutti: l’ultimo contratto dei metalmeccanici, che è stato firmato escludendo dal tavolo la Fiom, potrà essere dichiarato nullo (la regola del 5% era già nell’accordo del 28 giugno 2011, quindi antecedente).

È positivo poi che la Rsu venga eletta su base proporzionale, non vi sarà più quindi il terzo riservato. Discutibile è invece la regola per cui se un eletto lascia l’organizzazione nella cui lista è stato scelto, allora decade. Con un po’ d’ironia potremmo dire che nel parlamentino sindacale non ci sarà gruppo misto. Bene che si preveda per la validazione la consultazione certificata dei lavoratori a maggioranza semplice, ma è un male che si rimandi alle diverse categorie lo stabilire le modalità di questa consultazione. Qualcuno potrebbe essere tentato di mettere su semplici assemblee senza un voto realmente certificato.

Passando alla seconda parte, dobbiamo dire dei grandi limiti strutturali che ha questa intesa. Il primo è che si tratta pur sempre di un accordo interconfederale: ma al di là di Cgil, Cisl e Uil esiste un mondo sindacale assai più vasto e più articolato, il quale non è minimamente riguardato da questo accordo. Pensiamo ai tanti sindacati di base, i quali potranno continuare a dire: «Se io non firmo il contratto perché non lo condivido, esso non si applica ai miei iscritti». Come si vede, occorrerà necessariamente una legge che renda esigibile a tutti la creazione delle Rsu e che poi comporti un’effettiva efficacia generale del contratto stabilito.

Qui sorge il secondo problema, perché l’efficacia generale di un contratto collettivo nazionale di lavoro deve fare i conti con la non attuazione dell’articolo 39 della seconda parte della Costituzione. Per cui il legislatore che voglia veramente introdurre in Italia la democrazia della rappresentanza, dovrebbe riscrivere l’articolo 39 come segue: «La legge stabilisce le condizioni secondo le quali i contratti nazionali hanno efficacia generale per tutti i lavoratori appartenenti a un settore, fermo restando il principio maggioritario e rappresentativo nella negoziazione e conclusione del contratto».

Insomma, politicamente è un accordo importante, ma purtroppo giuridicamente resta un «colosso con i piedi di argilla», che se vorrà essere forte e veramente inclusivo, democratico e avere vigenza «erga omnes», dovrà essere necessariamente integrato da un’operazione legislativa.

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