121213giacchedi Vladimiro Giacchè
Banche «troppo grandi per fallire», attività a forte rischio, bonus milionari, scandali (uno per tutti: la manipolazione del Libor, uno dei tassi d’interesse più usati del mondo). Siamo tornati al punto di partenza di questa crisi, che anche in Europa – come ha ammesso un editoriale del «Financial Times» – «è stata causata più da eccessi di debito privato, particolarmente nel settore bancario, che dalla prodigalità del settore pubblico».
Ma con un’importante differenza rispetto alla situazione pre-crisi. Il modello di sviluppo basato sulla finanza e sul debito, dopo oltre 30 anni di onorato servizio, si è irrimediabilmente rotto nel 2007/8.

È stato mantenuto in vita grazie a trasferimenti di denaro pubblico che non hanno precedenti nella storia. Ma si è rotto. E tenerlo in piedi, oltre a essere ingiusto, sta diventando sempre più costoso. Un buon esempio sono i finanziamenti europei d’emergenza alle banche spagnole con la contropartita di misure di austerità durissime per i cittadini spagnoli. Ma il problema è più generale, e riguarda anche paesi come gli Stati Uniti, in cui le banche, lungi dall’essere in crisi, stanno macinando utili. Come ha osservato Sebastian Mallaby, «la struttura della finanza moderna –grandi istituzioni che prendono a prestito a poco prezzo perché i soldi li mette chi paga le tasse – è un abominio che deve finire» (Mallaby 2012). E in effetti, negli Usa come in Europa, riemerge la proposta di porre limiti dimensionali e funzionali alle grandi banche. E se invece il problema consistesse nell’as - setto proprietario delle grandi banche? Perché mai dovrebbe essere escluso in linea di principio che le grandi banche possano essere public utilities in mano pubblica? In fondo, il modo più sicuro per non soggiacere alla logica del breve termine, alla dittatura delle trimestrali, è avere un proprietario a cui interessa lo sviluppo di lungo termine e non il profitto di breve. Quanto all’obiezione secondo cui in questo modo gli utili sarebbero bassi, è facile rispondere rinviando alle cifre stratosferiche che i contribuenti di Europa e Stati Uniti hanno dovuto sborsare per salvare dal fallimento questi campioni di profittabilità.
Queste considerazioni sul sistema bancario sono il modo migliore per introdurre un ragionamento finale sulle prospettive della
crisi europea. È un dato di fatto che la cosiddetta crisi del debito sovrano in Europa è stata accompagnata, sin dall’inizio, dal problema delle grandi banche dei paesi centrali dell ’Europa che si erano esposte sui paesi periferici. In particolare l’incancrenirsi della situazione in Grecia, che sarebbe stata agevolmente gestibile se affrontata con tempestività, deve molto agli stop and go derivanti dall’esigenza di Germania e Francia di tutelare gli interessi delle proprie grandi banche private. Per questo motivo non si è effettuata una ristrutturazione del debito se non quando gran parte dei crediti delle banche erano stati trasferiti in capo alla Bce. Il risultato è stato l’abbandono della Grecia alle dinamiche “spontanee ”dei mercati finanziari, che hanno provocato un tale innalzamento degli interessi sul debito da rendere praticamente inutile (oltreché ingiusta) qualsivoglia manovra correttiva di bilancio. Un risultato atroce, ma coerente con uno dei postulati di fondo, dei pilastri ideologici che sorreggono questa Europa: cioè l’idea che bisogna «lasciar fare ai mercati » .
È lo stesso assioma che vediamo in opera nell ’ostinato rifiuto di fare intervenire la Banca Centrale Europea a difesa dei titoli di Stato dei paesi in difficoltà. Un rifiuto che soltanto in presenza di un’emergenza assoluta è diventato meno categorico, e comunque ha lasciato il posto a condizioni tali da rendere meno probabile e meno efficace quell ’intervento.
Si tratta dello stesso assioma che vediamo in opera nelle misure proposte agli Stati in difficoltà, le quali infallibilmente prevedono la drastica riduzione del ruolo dello Stato e più in generale dell’intervento pubblico nell ’economia: si tratti di grandi utilities o di municipalizzate locali, si tratti di imprese di interesse strategico o di aziende che necessitano di molto tempo per mettere a frutto gli investimenti effettuati. A questo vanno contrapposte non soltanto la difesa del settore pubblico dell’economia, ma, più in generale, l’esigenza storica di un rilancio della pianificazione dello sviluppo economico contro le inefficienze e la distruttività delle mere dinamiche di mercato.
Ma l’assioma del «lasciar fare ai mercati» è, ancora una volta, lo stesso assioma che abbiamo visto e vediamo in opera nell’idea di competitività fondata sul dumping sociale e fiscale all’interno dell’Unione. Un’idea – e una pratica – che, applicata oggi a paesi in crisi che si pensa di far tornare “competitivi ” a colpi di deflazione salariale, sta comportando un crollo della domanda, dell’occupa - zione e degli investimenti e un impoverimento generalizzato del continente. A un certo punto ci si accorgerà che non esistono mercati esteri in grado di sopperire al crollo della domanda interna così determinato e che anche quei mercati sono meglio serviti da chi investe in tecnologia rispetto a chi si avvale dell’allungamento dell’orario di lavoro e del taglio delle buste paga e dei diritti quali leva per competere.
Se questo è vero, oggi all’Europa non serve principalmente un’unione politica. Il puro e semplice superamento dell’asimmetria tra l’istituzione dell’Unione monetaria e l’as - senza di un’Unione politica, di per sé sola, non può rappresentare una risposta all’impasse attuale delle politiche europee. Non può perché, dietro la stessa assenza di unione politica, vi è l’impossibilità – sulla base dei Trattati attuali – di una politica economica comune; impossibilità la quale a sua volta, come abbiamo visto, rinvia a precisi presupposti sociali che informano la costruzione europea quale si è storicamente determinata. Se non si cambiano questi presupposti, anche un eventuale passo avanti verso l’unione politica non sarebbe un passo nella giusta direzione, e anzi potrebbe costituire un’ulteriore pericolosa fuga in avanti. Il problema, insomma, non è il fatto che ci sia troppo poca Europa, ma che l’Europa che abbiamo è minata da un difetto strutturale. Oggi, nel momento in cui i difetti di fabbrica della costruzione europea sembrano segnarne la fine, travolgendo con sé decenni di conquiste sociali e la stessa democrazia, è più che mai importante comprendere che una ripresa del progetto europeo può avvenire soltanto su basi radicalmente diverse. Non più l’Europa del dumping fiscale, ma un’Europa che stabilisca aliquote e regole fiscali uniformi su tutto il territorio europeo. Non più l’Europa del dumping sociale e della deflazione salariale generalizzata, ma un’Europa che stabilisca minimi salariali europei e uno “standard retributivo europeo ”. Se questo non avverrà, non avremo semplicemente un’Europa peggiore. Assisteremo al naufragio catastrofico del progetto europeo.
Estratto dal libro «Titanic Europa» di Vladimiro Giacchè, Aliberti editore da oggi in libreria.

Pubblico - 13.12.12

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