di Gianni Ferrara su ilmanifesto.it
La discussione sul conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura di Palermo, è di indubbia rilevanza. Lo è in sé. Lo è per lo sconcerto che potrebbe aver determinato nell'opinione pubblica. La Magistratura, la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale si sono poste come argini alla devastazione dello stato di diritto programmata e perpetrata da un Presidente del consiglio e da maggioranze di governo che per quasi un ventennio hanno usato il potere pubblico per fini privati, i poteri legali per fini illegali. Il timore della rottura di questa triade della garanzia dei diritti e degli equilibri costituzionali è spiegabile. Ma, per fortuna, è infondato. I costituzionalisti intervenuti concordi su questo e su altri giornali lo hanno dimostrato. C'è qualche ulteriore motivazione.
Ma è sull'oggetto del conflitto che si deve riflettere, su cosa sia l'intercettazione. Non può esserci dubbio: è un'interferenza, una restrizione della libertà e della segretezza della corrispondenza, diritti riconosciuti come inviolabili dalla nostra Costituzione (art. 15). Ammetterla è determinare una deroga alla garanzia di questi diritti. Una deroga che la stessa norma costituzionale prevede per la persecuzione di reati, consentendo che quei diritti possano subire limitazioni, solo nei casi e nei modi stabiliti dalla legge e disposte con atto motivato dell'autorità giudiziaria. Una deroga costituzionalmente legittima, ma una deroga. E si sa che principio indiscusso di civiltà giuridica è quello che impone, per le norme che derogano, un'interpretazione rigorosissima, non espansiva.
Non è stata tale quella della procura di Palermo, anzi. Perché gli ambiti delle deroghe sono, e devono essere, limitati. Oggettivamente e soggettivamente. Nel nostro ordinamento l'ambito oggettivo è circoscritto dalle prescrizioni dell'articolo 266 del codice di procedura penale. Lo è anche quello soggettivo. Vi provvede sia l'art. 68 della Costituzione che tutela i membri del Parlamento dalle intercettazioni «in qualsiasi forma» sempre che non siano autorizzate della Camera di appartenenza, sia l'assenza, nel nostro ordinamento, di qualche disposizione che permetta l'intercettazione della corrispondenza verbale o scritta del Presidente della Repubblica. A meno che non si tratti di quanto dispone l'articolo 7, comma terzo della legge 5 giugno 1989, correttamente citato nel decreto che solleva il conflitto di attribuzione. L'articolo permette le intercettazioni al Presidente della Repubblica, ma se inquisito per alto tradimento o per attentato alla Costituzione ed anche in tal caso, solo se la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica. Tanto piena e densa è la garanzia della libertà e segretezza di corrispondenza del Presidente della Repubblica.
Non si dica che quelle in possesso della Procura della Repubblica sono intercettazioni indirette e perciò sottoposte al regime del codice del codice di procedura penale di cui agli articoli 266 e seguenti. Dirette o indirette che siano, sono intercettazioni di conversazioni del Presidente. In quanto tali, in quanto cioè non previste da deroghe alla garanzia assicurata costituzionalmente alla libertà di corrispondenza del Capo dello stato, è illecito acquisirle agli atti del processo, è illecito averne valutato la rilevanza, è illecito continuare a sottoporle alla procedura dettata per le intercettazioni previste dal codice di procedura penale.
Di ragioni per sollevare il conflitto ce ne erano, ce ne sono. Disconoscerle è segno di grave nonchalance dei diritti inviolabili da parte di qualche magistrato. In altri rivela ignoranza o malafede o un intento eversivo. Comunque non è prova di "virtù repubblicane"