crisi1di Pietro Adami

 

 

Il tema della crisi dei partiti non è nuovo. 

E’ divenuto centrale negli ultimi mesi, non tanto per un’accelerazione della crisi, quanto per una sua maggiore visibilità. 

Segnalo due libri , che mi aiutano nel percorso di analisi. 

Il primo è un saggio di Domenico Gallo, contenuto nel volume  ‘La dittatura della maggioranza’, (Chimienti Editrice), completata dai lavori, sul medesimo tema, di Aldo e Giuseppe Bozzi, Raniero La Valle, Pancho Pardi e Federica Resta. 

L’altro libro che mi aiuta nell’analisi, sommaria per necessità di spazio, è ‘Crisi della democrazia e crisi dei partiti in Italia e nel mondo’  (a cura di Fabio Marcelli e Giovanni Incorvati – Aracne Editrice), frutto di una serie di importanti convegni dei Giuristi Democratici (Roma 2009-Firenze 2010).

 

Domenico Gallo racconta la storia politica di questi ultimi anni, attraverso la storia delle riforme elettorali. E’ una  condivisibile ed attenta ricostruzione di come l’’assalto’ ai sistemi elettorali sia stato causa ed effetto della crisi della democrazia del nostro paese.

Si parte  dai primi anni ’90, dalla crisi della funzione dei partiti nel modello partecipatorio: “i partiti” scrive Gallo “come espressione diretta ed organizzata di esigenze della società, dunque canale di mediazione reale fra la società e le istituzioni, come la fornace  che alimenta la democrazia politica e porta lo Stato nella società e la società nello Stato”. 

Lo scivolamento del nostro Paese sul crinale del nuovo modello di
(non) partecipazione, inizia, secondo Gallo, con la crisi del partito politico “da strumento per la partecipazione dei cittadini alla vita politica a struttura di potere autoreferenziale”.  Nei primi anni ’90 i partiti avviano una procedura di autodifesa, attraverso maggioritario (in cui il candidato unico è scelto dal partito) e liste bloccate, puntando ad un bipolarismo coatto e soprattutto ad un modello cooptativo della classe dirigente. 

Non si può non concordare.  La crisi della democrazia attuale ha le radici in quegli anni, ed è senz’altro crisi della forma partito. I partiti, come la Roma dei tardo impero, ai primi soffi delle invasioni barbariche,  all’inizio degli anni novanta, iniziano la costruzione di una nuova cerchia di mura intorno al loro potere.   Il partito comunista, cambia nome, cambia programma, abbandona l’idea di una radicale trasformazione sociale, diviene partito Democratico di Sinistra. Ed inizia a confrontarsi con i partiti ‘tradizionalmente’ al potere,  gettati nel panico dall’arrivo, sul proprio terreno,  di un concorrente forte ed organizzato. Era stato facile, fino ad allora, governare, nel sistema bloccato della guerra fredda. Dopo la caduta dello Stato Sovietico, ogni soluzione elettorale diviene possibile. La fine è nota: l’invenzione (vincente) del berlusconismo.  Il cui risultato prevalente è quello di trasformare la politica in uno dei pochi luoghi dove non è possibile parlare di politica. 

La seconda vittima di questo rimescolamento (dopo la politica stessa) è stato il partito.  Prima del crinale de l989/91 se si chiedeva cosa fosse il partito, la risposta era: “il partito è l’associazione di tutti coloro che hanno il mio stesso modello di trasformazione della società,  il partito siamo noi che  condividiamo stessi  ideali e stessa pratica politica”.

Oggi, posta la stessa domanda, molti potrebbero, ragionevolmente, rispondere:  “il partito è quell’Ente che nomina  il direttore dell’ ufficio postale” .     

La crisi del militante è testimonianza di questo. Se non sono qui per trasformare la società, pensa il militante, ci sono perché questo è un lavoro e mi dà da vivere.  Il militante diventa funzionario e perde il senso spirituale del suo impegno. 

Si è passati da una appartenenza politico-partitica necessaria, imprescindibile, che definiva se stessi nel mondo e con gli altri,  ad una eventuale, accidentale. D’altra parte a fini meramente postali, non è escluso che un monarchico possa valere quanto un mastelliano.

 

Il punto è se quella prima originaria trasformazione del sistema elettorale dei primi ’90 non fosse già la manifestazione di una premonizione dei partiti in questo senso. 

Premonizione che si è mossa su due binari: uno, “la crisi delle ideologie manda tutti gli elettori in libera uscita, nel medio periodo. Chiudiamo le iscrizioni alla partita democratica. Siamo noi, quelli di oggi, e facciamo in modo di rimanerlo per sempre”. La seconda “accentriamo il potere interno, attribuendo ai vertici il potere di scegliere la base parlamentare” (liste bloccate, maggioritario etc) Scrive Raniero  La Valle (nel successivo saggio della “Dittatura della Maggioranza”): “tale sterzata obbediva all’esigenza dei poteri esistenti di perpetuarsi e riciclarsi per rimanere immutati nella nuova situazione caratterizzata dal venir meno della motivazione anticomunista”.

Occorreva però compensare la perdita di ideale in termini di ‘senso di appartenenza’, ed ecco, secondo La Valle, ‘la predicazione a favore della democrazia del conflitto”, mentre conflitti ideologici molto più duri erano stati condotti con un “alto grado di civiltà  politica”.  

Ad ogni modo il processo di chiusura si pone in movimento  “ con il paradosso”secondo Gallo  “che tutti i rappresentanti del popolo, sia nelle elezioni del 2006, che in quelle del 2008 sono stati nominati dai dirigenti dei partiti…col nuovo sistema elettorale i nomi dei candidati sono perfino scomparsi dalla scheda elettorale con la conseguenza che le scelte dei candidati operate dai capi dei partiti non possono in alcun modo essere censurate, sconfessate o corrette dal corpo elettorale” e  “gli eletti , più che rappresentanti del popolo, sono-anche in senso tecnico- dei delegati di partito, anzi, del capo politico che li ha nominati”.

In sintesi. L’ipotesi sul tavolo era quella di un bi-partitismo, in cui i due partiti hanno il medesimo modello di società (il paradosso emerge nelle istituzioni internazionali, dove sarebbero assegnati  nel medesimo gruppo parlamentare, quello ‘democristiano’,  se ciò non comportasse problemi in patria). In termini di personale e pratica politica, con le dovute eccezioni , non emergono significative differenze, come conferma l’esperienza , tutto sommato serena e poco conflittuale dell’attuale governo Monti. Due partiti chiusi rispetto alla società ed alla partecipazione, particolarmente per quanto riguarda i ruoli di vertice, dove la cooptazione è la regola. 

La domanda però è un'altra. Questi due soggetti, al temine della loro trasformazione, ove dovesse continuare questo processo, sarebbero ancora da considerare ‘partiti’?. 

Dovrebbero essere considerati ancora ‘formazioni sociali’ oppure dovremmo definitivamente consegnarli all’organizzazione istituzionale?. E’ una parte di società che dialoga con le istituzioni, o la fusione è completa, e si tratta di una parte di istituzione che ‘dialoga’ con la società?.  

Non ritengo che questi due Enti (PDL e PD) possano ancora essere chiamati Partiti, nella accezione in cui fin ora è stato usato il termine . Prendo la definizione del vocabolario Zingarelli,  Partito: “Organizzazione politica di più persone, caratterizzata da una sua propria ideologia e volta al raggiungimento di fini comuni per la conquista e l’esercizio del potere politico”.

Quando viene meno, in un’organizzazione, l’idea comune (quale che sia), l’ente diventa una semplice ‘cordata’. Né può dirsi che i due Contenitori siano espressioni di lobby contrapposte. In effetti appaiono espressione delle medesime lobby, prudentemente presenti in entrambi gli schieramenti. 

Quindi Contenitori - Partito come parte dello Stato, nel modello che è proprio dei regimi autoritari, dove il partito è sostanzialmente un ente pubblico, una sorta di pro-loco, riservata a  coloro che intendono progredire nella carriera pubblica. 

 

Del secondo volume che mi aiuta nell’analisi,  voglio riportare  la lucida analisi di una figura di grande spessore che mi piace ricordare,  Pino Ferraris (Trasformazione del sistema dei partiti e democratizzazione della  vita politica): 

assistiamo ad una  trasformazione radicale della carriera politica: la struttura portante del partito non è più costituita dall’apparato burocratico. Nel partito burocratico di massa la militanza e l’apparato configuravano  un partito in un certo senso extraparlamentare il quale inviava proprie delegazioni in parlamento  e nelle istituzioni. Ora la politica si professionalizza nella forma di un curriculum che si svolge attraverso  una successione di accessi ai diversi livelli delle  cariche pubbliche ( consiglieri o assessori o sindaci o governatori negli enti locali,  parlamento nazionale, parlamento europeo, cariche pubbliche non elettive in enti ). Le strutture di coordinamento verso il basso  derivano sempre più dai detentori delle cariche pubbliche (staff, distribuzione degli impieghi, consulenze, clientele …). L’ufficio centrale cui faceva capo la vecchia macchina burocratica perde potere autonomo e tende a convergere con il partito delle cariche pubbliche.

Questa progressiva convergenza  rende strutturale la coincidenza tra cariche di partito e cariche pubbliche. In questo modo si insidia il principio di rappresentanza e si inquina il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata.

Infine come conseguenza di questi processi si realizza non solo il partito personale ma la personalizzazione diffusa  dei ruoli politici. La nuova figura del politico di professione diventa una sorta di  imprenditore politico di se stesso, il quale utilizza le risorse pubbliche di cui dispone ai fini della continuità e della ascesa della sua carriera personale. Questa tendenza viene poi esasperata (per usare termini weberiani) dalla dissociazione tra il vivere di politica (trarre dalla politica un reddito personale e uno status sociale) e il vivere per la politica ( la politica come dedizione ad una causa).

La centralità  del “vivere di politica”, nel caso italiano, viene accentuata dallo scandaloso cumulo di privilegi economici e sociali, di reddito e di status, legato alle cariche pubbliche. Qui la quantità  modifica la qualità della politica: la corrompe nell’interno e ne devasta l’immagine esterna. Appare nell’immaginario collettivo la “casta”. 

Si è quindi costituito un sistema feudale.

Il cacicco locale dispone di un pacchetto di voti e di tessere. I cacicchi sono collegati tra loro e fanno, talora, capo a un vassallo. Il vassallo ha un potere di cui il vertice del partito è, entro certi limiti, ostaggio. Un potere elettorale e congressuale. Spesso economico. 

È in ragione di tale meccanismo che personaggi completamente screditati continuano a occupare le loro posizioni.

 Il vertice viene espresso da questa base, da questi iscritti, da questi cacicchi, da questi vassalli. 

Il sistema di sottogoverno locale distribuisce "premi". Conseguentemente attira persone interessate ai benefici. Queste persone —l'esperienza lo dimostra— sono più strutturate, ed alla distanza prevalgono su coloro che partecipano solo per idealità alla vita di partito. Normalmente le cose le ottiene chi le vuole maggiormente. Chi partecipa per idealità spesso lavora, o studia, o è in pensione. Invece per le persone interessate è la politica il lavoro. 

Va detto, d'altra parte, per essere obiettivi nell'indagine, che chi partecipa per ideale spesso è polemico e inflessibile. Chi trasforma la politica in lavoro, viceversa non ha problemi di adattabilità ideale. Quindi dotarsi di un personale politico 'interessato' piuttosto che idealista conduce al risultato di professionalizzare la vita di partito e di rendere il partito ideologicamente più docile. È l'effetto UDEUR, partito che era un composto di clientele pronte a seguire il partito a destra come a sinistra. 

 

E’ un’analisi impietosa, ed ingiusta se si ha riguardo alle poche residue esperienze di politica partecipata, di cui senz’altro la Federazione della Sinistra è un esempio. 

Il nodo però non è comprendere chi sta meglio, è soprattutto capire se esiste un’alternativa al modello attuale, il modello tradizionale di partito ‘congressuale’ (e che è comunque il modello più democratico oggi noto). 

Ad esempio, il Movimento 5 Stelle, qualsiasi cosa si voglia pensarne, oggi, dopo la vittoria a Parma,  si trova di fronte ad un nodo essenziale. Fino a questo momento è stato solo movimento, per lo più virtuale, e con una capacità comunicativa essenzialmente legata al suo fondatore.

Nel momento in cui si impegna nell’amministrazione attiva, o si presenta ad un’elezione politica dovrà necessariamente darsi un’organizzazione. O, comunque, far comprendere, prima di tutto ai simpatizzanti ed ai militanti , come vengono prese le decisioni necessarie al funzionamento di una forza politica, prima di tutto le scelte programmatiche.

E’ pur vero che la nostra società della comunicazione è tale che consente ai soggetti di nascondersi molto a lungo dietro a slogan superficiali. Tuttavia il nulla attuale, dal punto di vista programmatico, del Movimento a 5 Stelle  dovrà pur riempirsi.

Vedremo, quindi, se questa nuova esperienza politica metterà in campo delle forme alternative di organizzazione/partecipazione, o se lo faranno gli animatori del Soggetto Politico Nuovo.

La  sensazione è che il problema dei partiti , come detto sopra, è  un problema della società e della partecipazione in genere. Non si esce dalla situazione attuale con una panacea, neanche attraverso  il pur utile intervento sulla  legge elettorale.

Senza considerare la domanda essenziale: le riforme utili a rivitalizzare la vita democratica del Paese dovrebbero essere poste in campo proprio da coloro che ne sarebbero travolti. Perché dovrebbero farlo?

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