Estratto della lettera inviata ai presidenti delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato
La ragion d’essere dell’Associazione “Per la democrazia costituzionale” ci impone di esprimere un giudizio meditato ma allarmato sul progetto di “Revisione di alcune norme della Costituzione” presentato dal senatore Carlo Vizzini il 12 aprile scorso. Ne riassumiamo i motivi.
Il superamento del bicameralismo perfetto, auspicato da tutte le parti politiche e da gran parte degli studiosi delle istituzioni non risulta realizzato. Dal testo emerge una netta conferma di tale tipo di articolazione della rappresentanza politica. La diminuzione del numero dei parlamentari è stata ridotta a contrazione della composizione dei due organi, a riduzione quindi del potenziale rappresentativo complessivo del Parlamento invece che a differenziata rappresentatività dei due organi, che avrebbe comportato che a comporre il Senato sarebbe stato o un componente per Regione o due. La configurazione di questo ramo del Parlamento che invece si propone è contorta.
Delle due forme di espressione della rappresentanza territoriale esistenti al mondo, quella della scelta popolare dei componenti l’organo rappresentativo e quella espressa dagli enti esponenziali delle realtà territoriali (Stati, Länder, Regioni, Comunità) si è recepita … la metà dei caratteri dell’una e dell’altra con conseguenze francamente sconcertanti. Della prima delle due forme, si sceglie l’elezione diretta, senza però la connessa eguaglianza del numero dei rappresentanti (due negli USA) per ciascuna entità territoriale. Della seconda, la sola derivazione territoriale, con la conseguenza che ciascun Ente-Regione è declassato a mera circoscrizione elettorale. L’escamotage della Commissione paritetica per le questioni regionali, composta dai venti rappresentanti delle assemblee elettive e da un egual numero di senatori da istituire presso il Senato, affidataria di una funzione consultiva sui progetti di legge all’esame di quel ramo del Parlamento, non può assolvere al compito di composizione degli interessi regionali e di quelli nazionali. Dispone di due potenzialità opposte e perverse, quella di blocco degli effetti dell’attività consultiva o quella di deriva separatista.
Maggiore preoccupazione e ancora più netta contrarietà desta la distribuzione delle competenze legislative tra i due rami del Parlamento a seconda che il disegno di legge riguardi le materie di competenza esclusiva o concorrente dello stato. Spaccare la fonte di produzione delle leggi, atti aventi eguale valore, efficacia e forza normativa, non soltanto spezza, comprime, declassa la rappresentanza come tale nella sua potenzialità assuntiva della potestà del soggetto-stato e come sede di ultima istanza delle garanzie costituzionali. Ma incide profondamente sulla unitarietà dell’ordinamento legislativo, tanto più che, in caso di dissenso parziale o totale della Camera “del riesame”, la decisione ultima sulla approvazione di una legge spetterebbe a quella delle due Camere che dovrebbe essere scelta con “decisione insindacabile” (anche da parte della Corte costituzionale ?) dai due Presidenti in base alla prevalenza del suo contenuto, se di competenza esclusiva o concorrente dello stato.
Ma è il criterio della ripartizione che inquieta. Dieci e più anni di giurisprudenza costituzionale testimoniano lo sforzo, enormemente encomiabile, della Corte di estrarre, più con intuizioni che con impossibili deduzioni, più con integrazioni felici che con esegesi fruttuose, un senso accettabile dal testo della Legge costituzionale 2001 n. 3 recante il vigente Titolo V della Costituzione. Ignorare tale vicenda dell’esperienza costituzionale e fondare su quel testo, su quel catalogo delle materie tanto rigido quanto lacunoso il riparto delle competenze tra le due Camere del Parlamento, imporre volta a volta ai Presidenti delle due Camere di ripercorrere il vasto, complesso, articolato ridisegno normativo compiuto dalla Corte è segno di disinvoltura inaudita. A quale dei due rami del Parlamento affideranno i progetti di legge sulle materie-non materie che la Corte ha dovuto sollevare dal profondo dell’ordinamento per colmare i vuoti anche lessicali di quel testo ? A quale delle due Camere attribuiranno i progetti di legge “riguardanti” gli interessi unitari dell’ordinamento ?
Anche le innovazioni che si intenderebbero apportare al procedimento legislativo allarmano per la ridondanza che le caratterizza senza alcuna reale esigenza istituzionale confessabile. Il comma nono della proposta di modifica dell’articolo72 della Costituzione ha ad oggetto poteri già disponibili nel nostro ordinamento per la maggioranza parlamentare, quella sulla cui fiducia si basa la composizione, la direzione, l’azione, la stessa esistenza di un determinato Governo. Non v’è chi non sappia che un qualsiasi progetto di legge, tanto più se di iniziativa governativa, può benissimo essere iscritto con priorità, anche assoluta, all’ordine del giorno della Camera o del Senato. Anche la determinazione del termine del procedimento di formazione di una legge è nella possibilità di tale maggioranza. Decorso lo stesso termine la stessa maggioranza può sempre respingere emendamenti, articoli aggiuntivi e quant’altro dispiaccia al Governo. Perché allora attribuirgli poteri tipici delle Assemblee parlamentari? Se per richiamare la propria maggioranza alla coerenza col programma di governo concordato in occasione dell’instaurazione del rapporto di fiducia, il Governo può ben servirsi della “questione di fiducia” della quale, per la verità, già fa un uso scandaloso, specie se combinata a maxiemendamenti ai testi dei decreti-legge. Non basta tale uso, si intende legittimare costituzionalmente l’abuso di potere di intervento del Governo nel processo di formazione delle leggi, l’appropriazione surrettizia del potere legislativo a danno del Parlamento ?
Sulle modifiche alla forma di governo prescritta dalla Costituzione vigente, le riserve non possono che accentuarsi. Da parte dei proponenti si afferma che con le modifiche che si vogliono apportate si miri a rafforzare Governo e Parlamento.
Dal testo elaborato dal Presidente della I Commissione del Senato non risulta. Risulta l’opposto. A rafforzarsi dalla scelta di sostituire il Presidente del Consiglio all’intero governo come destinatario della fiducia parlamentare non è né il Parlamento, né il Governo. Non è il Parlamento cui viene sottratto il giudizio sulle qualità politiche dei singoli responsabili dei vari dicasteri e sulla intera compagine governativa. Non è il Governo cui mancherà la forza politica che solo la fiducia del Parlamento espressa al suo insieme può conferirgli. A rafforzarsi sarà solo l’incaricato di formare il governo …. prima ancora di formarlo. Quindi non in ragione dell’intera configurazione personale dell’organo governo che intende presiedere e che è chiamato a comporre, il cui profilo più o meno alto, costituisce sintomo probante della sua attitudine di leader che ambisce a diventare statista. Ma solo per compiacere i pasdaran della nefasta ideologia della personalizzazione del potere.
Alla stessa ideologia si iscrive il meccanismo predisposto per la sfiducia. Lo si aggrava sia aumentando da un decimo ad un terzo dei membri di ciascuna Camera la sottoscrizione della mozione di sfiducia, sia stabilendo che debba contenere il nome del nuovo Presidente del Consiglio, sia prescrivendo che possa essere approvata solo con la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna delle due Camere. Alle quali, da una parte, si imporrebbe di riunirsi in seduta comune, dall’altra, si esclude che possano agire come collegio. Per la validità dell’approvazione della mozione di sfiducia, infatti, è richiesto il voto della metà più uno dei componenti di ciascuna delle due Assemblee che si vedrebbero costrette a votare nella stessa riunione ma separatamente. Perché si vuol prescrivere allora che la sfiducia debba essere approvata dal Parlamento in seduta comune? C’è solo da ipotizzare che si voglia in tal modo …. sceneggiare una sorta di Apocalisse.
Alla stessa ideologia appartiene la previsione che, qualora una delle due Camere neghi la fiducia, il Presidente del Consiglio sfiduciato ne possa chiedere lo scioglimento al Presidente della Repubblica eventualmente assieme a quello dell’altra Camera. L’uso del termine “chiedere” invece che quello di “proporre” identifica l’atto. Il destinatario della richiesta non può che provvedervi accogliendola o respingendola. Per respingerla dovrà disporre di ineccepibili motivazioni. La compressione del potere di scioglimento che l’art. 88 della Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica è evidente.
Altrettanto evidente è l’intento di munire il Presidente del Consiglio di uno strumento forte di intimidazione nei confronti del Parlamento. Non attenuato certo dal divieto di scioglimento delle Camere se, entro venti giorni dalla richiesta da parte del Presidente del Consiglio, il Parlamento in seduta comune dovesse indicare a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna di esse il nome di un nuovo Presidente del Consiglio.
Che alcuni di questi dispositivi siano stati desunti dalla Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca e che, adottati per assicurare la stabilità governativa, in quel contesto istituzionale e politico abbiano dato buona prova non è contestabile. Ma è del pari incontestabile che non è, da soli, che tali dispositivi abbiano determinato il buon rendimento di quella forma specifica di governo parlamentare. La stabilità è solo una condizione strumentale ma non indefettibile degli effetti virtuosi che può produrre una forma di governo. È l’efficienza invece la condizione indefettibile del successo di un sistema di governo. A produrla non può che essere la forza politica che i governi riescono ad esercitare e che deriva solo dall’ampiezza e dalla densità della rappresentanza di cui dispongono. A palesarlo è la natura rappresentativa dello stato contemporaneo, perché è rappresentativa la democrazia moderna. O non è.
Non da altro, non da artifizi di ingegneria istituzionale più o meno reclamizzati deriva quindi il rendimento di un sistema di governo. Scambiare lo strumento per obiettivo è deleterio. Lo dimostra l’esperienza dei venti anni della cosiddetta “seconda repubblica”. La stabilità o non ha retto per l’eterogeneità politica delle coalizioni affastellate solo allo scopo di godere delle distorsioni del sistema elettorale maggioritario con o senza premio di maggioranza, o ha addirittura bloccato la dinamica politica con governi inefficienti o perversi. Insistere sulla stabilità senza rappresentanza o con rappresentanza degli interessi del solo leader di maggioranza distruggerebbe irrimediabilmente la democrazia italiana.
Gianni Ferrara
Costituzionalista -Presidente dell’Associazione per la Democrazia costituzionale