di Franco Russo
Dopo la vittoria di Hollande, e soprattutto dopo lo straordinario successo di Syriza in Grecia, le classi dirigenti europee parlano tutte della necessità di programmi di crescita da affiancare alle politiche di austerità. Il fatto è che i loro programmi non sono alternativi e sostitutivi delle politiche di ‘consolidamento del bilancio’, ma queste ultime sono la base della loro prospettiva di crescita. Si ascolti per tutti, Mario Draghi presidente della BCE, vate sia del Fiscal Compact, già firmato, sia del Growth Compact (il patto di crescita), per il momento solo proposto. Il 24 maggio nel suo intervento per ricordare proprio Federico Caffè sostenitore indefesso del welfare state, Draghi ha affermato, per l’ennesima volta, che il ‘modello europeo’ va profondamente trasformato perché esso: «ridistribuisce molte più risorse a fini sociali rispetto ai sistemi statunitensi e giapponesi … Fattori strutturali hanno modificato il contesto entro cui opera il modello sociale europeo: la concorrenza crescente dei paesi emergenti, la riorganizzazione dei processi produttivi su base globale, la rapidità dell’innovazione, la crescente frammentarietà dei percorsi lavorativi sempre meno legati al riferimento di un “posto fisso”, la maggiore instabilità dei nuclei familiari». Come rilanciare ‘la crescita’? La ricetta di Draghi è chiarissima: andare oltre l’unione monetaria per giungere a una comune politica di bilancio dell’eurozona superando le sovranità nazionali (attraverso il Fiscal Compact); le riforme strutturali dei mercati dei prodotti e del lavoro con il completamento del mercato unico, così da rafforzare la concorrenza tra le imprese e la flessibilità del lavoro (con le politiche del Semestre Europeo); rilancio degli investimenti pubblico-privati in infrastrutture al servizio dei mercati (come i gasdotti, le linee ad alta velocità, l’agenda digitale), attraverso i project bond e il potenziamento della BEI (con il Growth Compact).
Draghi ha spiegato perché la stabilità dei prezzi e l’autonomia della politica monetaria rispetto a quella fiscale sono la base della crescita. Fino agli anni ’70 «l’obiettivo della politica economica era il massimo impiego delle risorse disponibili, in particolare il pieno impiego del lavoro. Nel perseguimento di tale intento, la politica monetaria era subordinata alla politica fiscale, con un ruolo ancillare della banca centrale rispetto al Tesoro … La definizione dell’obiettivo, è oggi più ampia. La stabilità dei prezzi è divenuta un parametro indispensabile nella definizione e nella misurazione stessa del benessere. Da condizione permissiva, e tutto sommato secondaria, un’inflazione bassa e prevedibile è ora criterio preminente di performance economica», perché una «bassa inflazione libera risorse che le scelte individuali possono destinare all’accrescimento del capitale fisso. Una politica disattenta all’inflazione destabilizza gradualmente l’economia».
In Italia questo impianto liberista − teorizzato da un allievo di Caffè! − è stato assunto con la modifica, votata dalla maggioranza PD e PdL, dell’art. 81 per introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, come richiesto dal Fiscal Compact (all’articolo 3).
Il Fiscal Compact è lo strumento per imporre le politiche di austerità, che comportano tagli alle spese sociali e la recessione economica. Occorre battersi contro la sua ratifica, il cui iter è stato rallentato grazie alla vittoria elettorale di Syriza, e dello stesso Hollande. Monti la voleva in contemporanea a quella tedesca nel mese di giugno, ora è ferma al Senato (in Commissione Esteri). Si è aperto un varco per dare un colpo alle politiche di austerità e al suo strumento principale: il Fiscal Compact.
Con le rivoluzioni borghesi si è giunti a un patto tra cittadini e Stato affinché il potere fiscale fosse di competenza dei parlamenti, della rappresentanza. Ora i governi, con il Fiscal Compact, si auto-conferiscono il potere fiscale per imporre, per gli anni a venire, le politiche di austerità in modo da scaricare i costi della crisi economico-finanziaria sui popoli europei. Le politiche fiscali non saranno più decise dalle rappresentanze elette, a deciderle saranno la tecnocrazia della BCE e i governi riuniti nel Consiglio europeo con la collaborazione della Commissione e del Vertice Euro. Infatti saranno questi organismi, seguendo le procedure individuate dal Patto Euro Plus e i parametri indicati dal Six Pack, a valutare ‘la sostenibilità delle finanze pubbliche’ dei paesi membri e a farsi garanti anno dopo anno del ‘consolidamento fiscale’.
Con questo insieme di provvedimenti siamo oltre il Trattato di Maastricht perché questo prevedeva il limite del 3% del deficit annuale e il 60% del PIL come limite massimo del debito, e prevedeva sì le procedure di disavanzo eccessivo, ma non l’accentramento delle decisioni delle politiche fiscali, che si è creato. Ora entrate e spese sono sottoposte al vaglio del Consiglio Europeo, della Commissione e del Vertice Euro, con l’attiva partecipazione della BCE, in modo che il deficit annuale strutturale non oltrepassi lo 0.5% del PIL. Nel caso si oltrepassi questo limite, afferma l’art. 3 del Fiscal Compact, interviene la Commissione per imporre un’azione correttiva. Azione correttiva che viene letteralmente imposta altrimenti scattano non solo pressioni ma sanzioni come previsto dalle procedure del Semestre Europeo.
L’articolo 4 impone l’abbattimento del debito pubblico, per la quota che eccede il 60% del PIL, un ventesimo all’anno. Per l’Italia ciò significa un abbattimento di circa 47 miliardi l’anno, quasi il 3% del PIL!
L’articolo 5 prevede l’attuazione, in partnership con l’UE, di un programma relativo sia al bilancio sia alla politica economica che ‘includa una descrizione dettagliata di riforme strutturali’ intendendo con ‘riforme strutturali’ quelle del mercato del lavoro, dei servizi pubblici, della previdenza. È il programma che sta realizzando il governo Monti: prima il taglio alla previdenza con l’allungamento della stessa età pensionabile, poi le liberalizzazioni e privatizzazione dei servizi partire da quelli a rete, poi il mercato del lavoro, per facilitare ancor di più licenziamenti, flessibilità e precarietà.
L’articolo 6 stabilisce che la stessa programmazione della collocazione dei titoli di debito pubblico deve essere comunicata ex ante all’UE per coordinarla a livello europeo. Inutile ricordare che l’emissione dei titoli è una delle ‘prerogative’ più incisive dei ministeri del Tesoro, che ora di fatto viene spostata a Bruxelles.
Bene ha fatto il Comitato No Debito a promuovere una campagna per opporsi alla ratifica del Trattato, e ragionevole risulta la sua richiesta di un referendum di indirizzo, come quello tenutosi nel 1989, per sottoporlo al giudizio popolare. Essa, insieme speriamo alla vittoria di Syriza in Grecia il prossimo 17 giugno, dà forza alla resistenza contro l’oligarchia politica e finanziaria dell’UE e pone le basi di un’altra Europa − l’Europa democratica, sociale e federalista.