Di Imma Barbarossa

Certo non sarà la retorica della "pace è donna" o della "pace in rosa" a sminuire l'importanza del Nobel per la Pace 2011 assegnato a tre importanti e autorevoli donne, né a trascurare il fatto che si tratta di due africane e di una yemenita, cioè di donne che vivono in luoghi difficili, non solo per quanto riguarda l'affermazione e il rispetto dei diritti delle donne, ma anche per le condizioni di miseria da una parte e di mancanza di democrazia dall'altra. Qui in Occidente, tra masse sempre più grandi di individui/e che sono sottoposti alla schiavitù delle banche e dei poteri forti, cresce l'indignazione di soggetti che rifiutano di pagare un debito che non li riguarda. E tuttavia è difficile sconfiggere gli egoismi delle piccole patrie, i respingimenti di donne e uomini migranti, la loro carcerazione in centri o navi dove il rispetto dei diritti umani diventa un optional e nella migliore delle ipotesi un miraggio di assistenza cristiana e caritatevole.
E proprio per evitare la retorica della "pace in rosa" non cadremo nella tentazione di santificare le tre donne premiate.

Com'è noto, si tratta di una donna di grande potere con sapienti abilità diplomatiche alla vigilia di elezioni,di un'attivista di movimento e di una giornalista alla testa di un partito conservatore che si batte contro la dittatura yemenita. Queste donne rappresentano la forza di alcune, la loro volontà di affermare il diritto delle donne alla libertà, alla sfera pubblica, alla politica. Non è poco.
E tuttavia vorrei avanzare due considerazioni e qualche ragionamento. La prima considerazione: il Social Forum Mondiale di Dakar del febbraio 2011 aveva proposto il Nobel per le donne africane, per quei collettivi di donne che si battono quotidianamente contro la fame e la miseria, per la concessione del credito alle organizzazioni femminili e, soprattutto, per la parità e la democrazia di genere. La seconda considerazione: la giornalista yemenita non rappresenta le primavere arabe, le donne nelle piazze che hanno lottato per una democrazia laica e antifondamentalista, a partire dalla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia. E ancora qualche ragionamento che ci riporti in Occidente e su questa sponda del Mediterraneo. Una delle due liberiane, la donna "di movimento", suscitò molto scalpore con la proposta di "sciopero del sesso". Come ricorda Adriano Sofri su Repubblica, alle critiche che furono loro rivolte (tra cui quella di ritenere il genere maschile "padrone" del sesso e le donne sottomesse al piacere maschile) le attiviste risposero che poiché i maschi hanno in testa solo il sesso, bisognava colpirli là dove sono più vulnerabili. Ebbene, ad onta della tradizione letteraria classica (Aristofane, Lisistrata), ad onta delle facili battute che si potrebbero fare (e si sono fatte) su quella forma di disobbedienza, credo personalmente che ancora una volta si tratti di una forma di subalternità femminile ad una visione maschile del mondo e della relazione tra i sessi. Lo sciopero non è una sottrazione ad una relazione: lo sciopero è il rifiuto di una prestazione, appunto nell'ottica della relazione sessuale intesa come prestazione.
Ma perché mi sto dilungando su un aspetto in fondo marginale della questione? Perché vorrei tornare a noi, al nostro Occidente, alla situazione in cui ci tocca vivere. L'oscena e farsesca condizione italiana, in cui l'intreccio antico tra sesso e potere trova una sua moderna, grottesca rappresentazione politica, mette in evidenza la tragicità di un contesto. Se una tale signora Teresa De Nicolò, offerta dietro compenso a "utilizzatori" bipartisan, può dire quello che ha detto in una nota intervista, è perché il contesto lo consente. Complicità di servi da una parte, sorrisetti dall'altra. Si tratta certo di indignarsi per il corpo delle donne ridotto a merce e usato come tangente, ma si tratta di molto di più. Si tratta della riduzione dei corpi, delle vite, delle coscienze a "funzioni" del potere e della sopraffazione, della riduzione dei legami sociali a competizione cannibalesca, della relazione tra i sessi a compravendita, dell'eros a turpe ammiccamento. Mai come oggi il nesso tra capitalismo e patriarcato si rivela inscindibile: non è possibile, perciò, né una politica di compatibilità con un "capitalismo etico", né una semplice indignazione moralistica. Vanno,finalmente, affrontate le radici del problema e del nesso in questione. Ma se lottare contro il patriarcato come semplice ingiustizia resta al di qua del problema, ancora più grave mi pare l'atteggiamento di gran parte dei compagni che - non so se per timore di perdere terreno nello spazio della politica - continuano a girarsi dall'altra parte quando si parla di donne e, soprattutto, quando parlano le femministe. Questi compagni non sospettano che si parla proprio di loro.

da Liberazione 09/10/2011

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