di Eleonora Martini
Il senato discute la riforma sull'onda del caso Sallusti. La vicenda «esprime lo spirito del nostro tempo: anziché l'esercizio del diritto per fini di carattere generale, si fa un uso congiunturale delle istituzioni»
Stefano Rodotà, le norme sulla diffamazione che il Senato sta cercando di riformare sono quelle scritte nel codice Rocco del 1925, che ha un impianto di concezione autoritaria...
No, attenzione: la diffamazione è un reato storico, già ampiamente disciplinato dal codice Zanardelli del 1889, all'epoca molto innovativo e che non è certo sospetto di autoritarismo come il codice Rocco. Naturalmente la disciplina penale può essere intrisa del clima politico dell'epoca in cui è nata...
E la legge che sta venendo alla luce in Senato di quale epoca parla?
Leggendo i resoconti della commissione giustizia si trovano passaggi, emendamenti e dichiarazioni che sono semplicemente frutto di un vero delirio. Incomprensibili. O comprensibili solo per un ceto politico che detesta profondamente i mezzi di informazione e cerca perciò una rivincita. Si sta cogliendo l'occasione di un caso circoscritto per colpire la stampa. E' già avvenuto nel caso Mancino-Napolitano, usato per tirare in ballo le norme sulle intercettazioni che nulla avevano a che fare. E' questo che mi lascia esterrefatto. Come dicono i giuristi inglesi, hard cases make bad law, i casi difficili producono cattive leggi. Se per risolvere un caso specifico si mette mano alla legge generale stravolgendo l'impianto di diritto, si fa un danno enorme. Questa vicenda è assolutamente espressiva dello spirito del nostro tempo: anziché l'esercizio del diritto per fini di carattere generale, si fa un uso congiunturale delle istituzioni.
Entriamo nel merito: secondo lei è necessario cambiare la legge?
C'è un equivoco di fondo: il reato di diffamazione non è un reato di opinione e il caso Sallusti, cioè la pubblicazione di notizie false, non ha nulla a che vedere con il libero pensiero. E oggi più che mai si sente l'esigenza di rispettare l'onore e la dignità delle persone con un reato sanzionato penalmente. Va però rimessa in discussione la tradizione che vede il carcere come unica sanzione adeguata. Ci sono molte buone proposte di revisione di quel codice penale (l'ultima formulata dalla commissione Pisapia) che rimane uno dei monumenti della scienza giuridica autoritaria, non appropriato ad una democrazia. Ma sono state tutte accantonate da decenni.
Molti dicono: eliminiamo il carcere per i giornalisti e lasciamo il resto così com'è. Non si dovrebbe invece rivedere tutto l'articolo del codice Rocco che contiene anche il reato di oltraggio a pubblico ufficiale?
Certo, va rivisto tutto l'impianto, non solo un pezzettino, giusto per fare una legge ad personam lasciando poi però il problema gigantesco dell'uso di informazioni false o deliberatamente fornite con dolo. A causa della regressione politica e culturale che stiamo vivendo, non siamo in grado di disciplinare in modo equilibrato invece che congiunturale.
Al di là di Sallusti, negli ultimi anni la querela per diffamazione è diventata uno strumento intimidatorio e remunerativo. Come se ne esce?
Ecco, è di questo che si dovrebbe occupare il Senato se vuole disciplinare seriamente la materia. Occorre una più precisa configurazione del reato, e va prevista una contromisura alle cosiddette "liti temerarie", ossia all'uso distorto di uno strumento tanto importante. Quando una querela risulta infondata, il querelante dovrebbe essere chiamato a pagare un pegno proporzionale al danno richiesto, perché l'intimidazione è accentuata soprattutto in sede civile. La querela, poi, non può rimanere a lungo una spada di Damocle sul giornalista: il processo si deve chiudere rapidamente. Mentre sulla rettifica non occorre arrivare a certe forzature (il doppio delle righe, la pubblicazione per una settimana di seguito, ecc.) ma basterebbe far rispettare le regole esistenti. E invece la legge che viene fuori dal Senato non affronta questi problemi, ma va a toccare - veramente - la libertà di stampa.
Sanzioni fino a 100 mila euro: chi può permettersele?
Certo, va fatta una distinzione tra una notizia data in prima serata sul Tg5, per esempio, e una in apertura di un magazine on line o di un giornale a piccola diffusione. Altrimenti chi ha una forza economica adeguata può permettersi operazioni di diffamazione pianificandole a tavolino. Così come va distinto l'errore dovuto a negligenza, a un mancato controllo, da una diffamazione perseguita intenzionalmente o una campagna organizzata.
Il ddl considera l'editore responsabile in solido con l'articolista e il direttore. Cosa cambia rispetto all'attuale assetto penale?
Anche nella legge bavaglio sulle intercettazioni si è tirato in ballo l'editore. Attualmente c'è un meccanismo indiretto che arriva all'editore: il giornalista e il direttore hanno clausole contrattuali che li sollevano dalle multe. Se però si considera l'editore direttamente responsabile della diffamazione, la sua ingerenza in redazione è più legittimata: potrà dire con maggiore facilità "quell'inchiesta non la voglio".
Se poi si eliminano anche le clausole contrattuali della malleva che sollevano il giornalista dal pagamento diretto delle sanzioni pecuniarie, il bavaglio è completo...
Un modo puramente punitivo di legiferare.
il manifesto 23 ottobre 2012