di Lucio Babolin* e Antonio Ferraro**
Vogliamo presentare alcune, parziali, conclusioni al lavoro che ci ha visti impegnati in questi mesi per la realizzazione dell’inchiesta sul lavoro sociale in Italia. La prima conclusione è una constatazione: il “lavoro sociale” significa soprattutto lavoro con e per le comunità sociali.Si tratta, allora, di accogliere all’interno della riflessione temi che vanno oltre la mera risposta ai bisogni.

Diventano sempre più significative le progettazioni complesse, fortemente intrecciate con la dimensione politica, culturale, promozionale, fino all’applicazione di un modello di lavoro sociale che coinvolge in toto le comunità, alla ricerca di una responsabilizzazione piena della cittadinanza rispetto alle proprie risorse e ai propri limiti.Approdare a questa complessità ha portato nel corso del tempo a precisare la riflessione sull’esigenza via via più stringente di professionalizzazione. Gli operatori sociali sono, nella stragrande maggioranza, dei professionisti del lavoro sociale, con competenze e titoli di studio specifici, portatori di un’esigenza continua di aggiornamento formativo e raffinamento dell’offerta. La seconda possibile conclusione è che, forse, oggi siamo nelle condizioni di meglio definire cosa si intende per lavoro sociale. Il Lavoro sociale è agito da soggetti collettivi. Gli interventi nel sociale non sono mai individuali, ma si pongono in un’ottica di partecipazione, condivisione, confronto democratico. È, dunque, un lavoro sempre attento ai processi formativi, sia alle competenze metodologiche e di contenuto che alla crescita delle capacità relazionali dei propri operatori. È un lavoro costruito intorno a servizi integrati, inseriti nel territorio, e non una semplice somma di figure professionali.Certo, il lavoro sociale deve saper parlare agli ultimi, ma anche alla immensa massa di indifferenti che sembra spesso circondare i servizi e gli interventi. Saper affrontare il tema della devianza, ma ancor più quello della normalità.Centrale, nelle professioni sociali, è compiere – in primo luogo all’interno delle organizzazioni stesse, per poi rivolgersi all’intera cittadinanza – un passaggio culturale che integri l’attenzione alla presa in carico delle situazioni di disagio col farsi promotori di condizioni di agio a beneficio delle comunità sociali nel loro complesso.La terza considerazione attiene alla trasformazione che si è determinata in questi anni nelle forme e nei modi nei quali si esprime il lavoro sociale.L’intervento sociale è divenuto più complesso, rivolgendosi a un numero sempre crescente di persone vulnerabili, ma al tempo stesso anche a una fetta di popolazione che non presenta alcun elemento di grave criticità. Dalla presa in carico e prevenzione, dunque, alla promozione, alla ricerca di forme di sostegno e dialogo con i protagonisti della vita delle comunità sociali.La qualità stessa degli interventi si è trasformata, con la possibilità di effettuarne alcuni personalizzati e centrati sull’individuo a fianco di altri stimolati più dall’azione collettiva e territoriale. E gli operatori sociali ne sono ben consapevoli.In una situazione così ricca di fermenti e cambiamenti, con spinte sempre più forti in direzione di una maggiore specializzazione degli interventi, si sono costruite migliaia di occasioni per nuove professionalità e opportunità lavorative per molti giovani motivati e neolaureati. Che, appunto, hanno scelto di lavorare in quest’ambito non “per ripiego”.Nel frastagliato mondo della cooperazione sociale, e del Terzo settore in generale, questa fase è stata interpretata con comportamenti assai diversificati: chi ha continuato a fare innovazione, chi ha pensato al  punto “di non ritorno” rispetto alle crescite raggiunte e si è “seduto” sulla standardizzazione dei servizi, chi ha insistito nel creare legami con le comunità locali, chi si è limitato a creare appositi uffici progetto partecipando al numero più alto possibile di gare d’appalto, andando oltre ogni concetto di radicamento territoriale…Ma questo processo di diffusione e trasformazione del lavoro sociale è stato in questi ultimi anni sostanzialmente bloccato.Quarta conclusione. Molte organizzazioni, grandi e piccole, sono entrate in crisi, schiacciate dalla tenaglia dell’incertezza e dell’insufficienza delle risorse, che ha portato a gravi crisi finanziarie o a esposizioni bancarie insostenibili.Per tentare di uscire da questa situazione sono state elaborate e realizzate diverse opzioni, che spesso hanno generato nel Terzo settore altre contraddizioni e debolezze.Molti si sono rinchiusi nella sterile gestione efficiente dei servizi, rinnegando le proprie radici.Sovente è stato fortemente sacrificato il lato sociale dell’intervento, inteso come la parte più innovativa e capace di produrre cambiamento e trasformazione del contesto sociale in cui si opera.Allo stesso tempo è spesso venuta meno la partecipazione interna alla vita associativa, peraltro un processo quasi naturale nei casi in cui si punta all’espansione quantitativa senza freni.Dentro questa dimensione si è frequentemente accumulato il ritardo nel rilanciare forme interne di partecipazione in grado di favorire il complesso passaggio da organizzazioni carismatiche a organizzazioni con responsabilità diffuse, un aspetto che non casualmente è stato molto sottolineato dagli operatori che hanno risposto al questionario dell’indagine sul lavoro sociale.Altri, invece, hanno scelto di evolvere, ri-esistere, tentando nuovi approcci di interlocuzione con il mondo del pubblico e con le comunità locali. Ma molti sono anche scomparsi dalla scena dell’intervento sociale, parecchie piccole cooperative e associazioni hanno dovuto chiudere i battenti nel silenzio assoluto di tutti.È, forse, lecito pensare che ciò abbia agevolato chi intende contrapporre nel Terzo settore volontariato e cooperazione sociale, il primo agito – da molti politici locali – contro il secondo perché ritenuto più economico, più funzionale oltre che più motivato e solidale.Ma, in effetti, dietro a molte di queste opzioni di fuoriuscita dalla crisi si cela una concezione del lavoro sociale ridotto a pura prestazione individuale, semplice gestione di mano d’opera, anche a basso costo, con la conseguenza inevitabile di una sua trasformazione in prestazione individuale gestita direttamente dalle agenzie interinali o dalle organizzazioni del Terzo settore, trasformate – di fatto – in realtà di intermediazione che rispondono ai voleri del dirigente del pubblico o alle singole richieste del privato cittadino.Questo è anche il risultato del mancato riconoscimento, nei fatti, della funzione pubblica e sociale svolta nei territori dalla cooperazione e dall’associazionismo in tutti questi anni.Questo è il frutto di scelte politiche nazionali e locali che hanno costruito un sistema che vive nella continua precarietà di risorse, assolutamente inadeguate rispetto alla attuale complessità sociale e all’affermarsi di sempre nuovi e più sofisticati bisogni.Questo è l’effetto di approcci politici locali che hanno interpretato e sfruttato i recenti finanziamenti, legati a leggi di settore, per progettualità e sostegni economici temporanei e non come fasi di avviamento di stabili politiche sociali territoriali.Tutto ciò ha prodotto, quinta considerazione conclusiva, una situazione  in cui non esiste un’affermazione piena e generalizzata dei diritti dei lavoratori del settore. Continua a mancare, a dieci anni dall’emanazione della legge 328, una definizione nazionale dei profili professionali del sociale; i livelli contrattuali sono generalmente più bassi di quelli dei lavoratori impegnati nelle strutture pubbliche; è frequente e massiccio il ricorso a contratti a progetto, il livello di precarietà è estremamente elevato.L’affermazione piena dei diritti dei lavoratori del sociale non è solo un valore e una necessità imprescindibile in sé, ma anche la misura di servizi di qualità capaci di uscire dalla dimensione dell’assistenzialismo. In ciò sta il riconoscimento del legame profondo tra i diritti dei lavoratori del sociale e i diritti delle persone e dei cittadini cui sono rivolte le prestazioni. Essere vulnerabili, per gli operatori sociali, è un dato di fatto. Non è escluso che tutto ciò possa spingere sempre più spesso molti ad abbandonare il ruolo che si sono scelti per cogliere altre occasioni. Esiste, quindi, un evidente legame tra qualità di un servizio e qualità del lavoro, con una diretta ricaduta sull’efficienza, l’efficacia e la capacità di produrre benessere sociale. È necessario, pertanto, sviluppare una relazione tra amministrazione pubblica e Terzo settore in grado di superare i bandi al massimo ribasso e contrastare le politiche che favoriscono esternalizzazioni non giustificate di funzioni, evitando così la diffusione di un rapporto di semplice fornitura di servizio o di scambio clientelare. Uno sguardo al futuroCon questi dati e considerazioni è possibile riflettere in modo più consapevole sulle prospettive del lavoro sociale, di cui si è già sottolineata la precarietà, causata – secondo molti degli operatori che hanno partecipato all’indagine – in primo luogo dalla costante contrazione delle risorse avvenuta negli ultimi anni e, in secondo luogo, dal processo mai realmente portato a termine di riconoscimento del ruolo professionale degli operatori sociali. Si tratta di riflettere in questo senso su due fronti: quello interno alle organizzazioni e quello esterno, politico-istituzionale.Dal punto di vista interno, preme sottolineare che è necessario arrivare a una definizione del ruolo che – pur non prescindendo dalla nostra storia – non svenda il lavoro accettando condizioni non dignitose per le operatrici, gli operatori e i servizi stessi. Dal punto di vista esterno, invece, al di là della mera rivendicazione, si tratta di riflettere con tutti i soggetti sociali coinvolti sulla costruzione reale di un “welfare dei diritti”, a partire dai diritti delle categorie sociali più deboli (di cui possiamo dire che gli operatori stessi fanno spesso parte, date le condizioni di precarietà in cui lavorano molti di essi) e consapevoli del fatto che la cura dei soggetti deboli è la prima condizione per il benessere collettivo e, di conseguenza, per la stessa sicurezza sociale al centro del dibattito politico attuale.Una ragione di questa assenza di valorizzazione del lavoro sociale è da cercare, come dicevamo, anche nel mancato riconoscimento della funzione “pubblica” esercitata, che pesa sulle stesse organizzazioni sociali nel momento in cui vengono scelte dalle istituzioni come fornitrici di servizi all’interno del sistema territoriale di welfare. Il loro ruolo pubblico viene negato dalle procedure di appalto predisposte dagli Enti locali, la loro esistenza e solidità economica messa in discussione dagli enormi ritardi nella erogazione dei corrispettivi per le prestazioni rese, il loro coinvolgimento ai tavoli della concertazione che predispongono i Piani di zona ridotto spesso a formale consultazione.Il messaggio che viene veicolato e che tende culturalmente a imporsi per divenire prassi operativa è che le imprese non profit non erogano servizi inseriti nella rete pubblica di welfare, ma devono collocarsi, come tutte le altre aziende, sul mercato dei servizi. Un mercato che, però, è del tutto sui generis perché, come nel caso dei servizi alla persona, è in realtà regolato dagli Enti pubblici e dai loro finanziamenti.La vera e propria aberrazione che nega il riconoscimento della funzione pubblica esercitata dalle organizzazioni di Terzo settore e del ruolo socialmente rilevante delle migliaia di operatori sociali che in esse lavorano ha comportato la sostanziale impossibilità per questi soggetti di svolgere le funzioni di co-programmazione e co-progettazione pur affermate nella stessa legge 328/2000, che ha ridefinito il sistema degli interventi sociali.Insomma, per troppi responsabili politici e tecnici delle istituzioni locali – e centrali – il Terzo settore rimane il soggetto della presa in carico diretta di persone e problemi, ma non un attore a pieno titolo della programmazione dei servizi, a pari titolarità con l’Ente pubblico, pur nella differenza e nella specificità di ruoli e compiti. Un welfare dei diritti può esistere solo se vi è una nuova assunzione di responsabilità da parte dell’Ente pubblico nel garantire dei servizi e delle prestazioni in grado di soddisfare le esigenze espresse dalla cittadinanza, per i quali, di conseguenza, la lettura partecipata dei bisogni si pone “sempre” come il punto di partenza di ogni iniziativa, allargando i suoi spazi fino ai beneficiari stessi degli interventi, che come abbiamo visto vengono esclusi da tali processi di coinvolgimento.Sempre su questo fronte, la nostra inchiesta rafforza il concetto che la partecipazione dal basso è in grado di facilitare percorsi di conoscenza su determinate questioni, ma anche di mettere in discussione le classiche modalità, spesso autoreferenziali, di riflessione-azione presenti nella politica e nel Terzo settore. Aver dato voce direttamente agli operatori, infatti, ci ha permesso di conoscere meglio questo mondo e, di conseguenza, di porre le basi per la costruzione di proposte più legate alla realtà. Un segnale di inversione di rotta del modo dell’agire politico che dovrebbe diventare prevalente nei processi decisionali, soprattutto in una fase storica segnata da aumenti significativi di bisogni e disuguaglianze sociali. Questo eviterebbe, in parte, il rischio di creare paradossi socialmente negativi, come quello che abbiamo davanti agli occhi, in cui invece di ascoltare le mille voci e di guardare in faccia i mille volti del welfare invisibile, si tagliano fondi alle politiche sociali e agli enti locali giustificando un disegno che prevede la sostituzione dello stato sociale, garanzia universalistica dei diritti di cittadinanza, con un welfare mercantile e caritatevole.Il nostro obiettivo, certo ambizioso, è quello di fare in modo che chi programma i Piani di zona, chi fa leggi, chi fa tagli, si rapporti con chi quotidianamente si “sporca le mani” e conosce meglio di tutti il sistema del welfare, dalle potenzialità alle criticità, manifestando anche una sorprendente capacità di individuare le soluzioni per migliorarlo.Per noi l’inchiesta è solo una piccola puntura di spillo, ma può rappresentare un valido esempio da seguire anche in futuro, perché in questi anni troppi, da destra a sinistra, si sono riempiti la bocca di proposte senza neanche chiedere cosa ne pensassero i veri protagonisti.

*Presidente nazionale del Cnca

**Responsabile nazionale Politiche sociali Prc-Se

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